Il prodigio non si è ripetuto. Un anno fa il Festival di Cannes aveva toccato una delle sue vette recenti: tra il vincitore Terrence Malick, con The Tree of life, e altri film – premiati e non – come The Artist, Drive, Il ragazzo con la bicicletta, Miracolo a Le Havre, Polisse, This Must be The Place e, fuori concorso, Midnight in Paris (solo per citare i migliori), il festival francese aveva segnalato una proposta tanto variegata (perfino il ritorno del muto, con The artist!) quanto vivace. Dove anche autori di fama si mettevano in gioco, senza mai (o quasi) dimenticare di avere uno spettatore dall’altra parte dello schermo.

Ma i festival sono come le annate dei vini: non tutte sono dello stesso livello. E così, nella 65ma edizione appena compiuta, sono tornati a primeggiare i difetti di molte rassegne cinematografiche, quelli che fanno temere se non per il futuro del cinema almeno per quello cosiddetto “d’autore”. Non che i film di valore e talento mancassero: e la giuria guidata da Nanni Moretti, tutto sommato, ha consegnato agli archivi un palmarès accettabile. Con la prevedibilissima vittoria dell’austriaco Michael Haneke, ad appena tre anni dalla sua prima Palma d’oro con Il nastro bianco, per il suo nuovo film Amour. Un melodramma asciutto che ha commosso la critica e il pubblico, appoggiandosi oltre che sullo stile meno glaciale del solito del regista anche sulle interpretazioni di due giganti come Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, e che non mancherà di far discutere quando uscirà in autunno in Italia per la sua scelta “d’amore” che porta alla morte. Non esattamente un film sull’eutanasia, non un film sull’eutanasia (altri film hanno toccato il tema in modo più diretto e anche meno umano (come il pessimo Mare dentro), ma su una generosità nell’accudire la persona amata che non tiene, che crolla di fronte alle circostanze dolorose. Anche se il rischio del ricatto emotivo, e di chi potrebbe farne una bandiera, c’è sempre. Sul resto dei premi, pur opinabili in un’annata con pochi film indimenticabili, si può comunque concordare in gran parte: fa piacere il secondo premio a Matteo Garrone, coraggioso dopo il successo di Gomorra di tentare con Reality strade molto diverse (come anche, fuori concorso, la buona prova del maestro Bernardo Bertolucci con il piccolo ma toccante Io e te); fa simpatia l’ennesima variazione sul tema di Ken Loach con i suoi perdenti in cerca di riscatto in The Angel’s Share; di forte impatto emotivo The Hunt del ritrovato danese Thomas Vinterberg che ha portato al premio l’attore Mad Mikkelsen; eccessivi invece i due premi, soprattutto per la sceneggiatura, per il fastidioso film rumeno Beyond the Hills di Cristian Mungiu (già vincitore a Cannes con il ben più profondo 4 mesi, tre settimane e due giorni).

L’unico premio davvero incomprensibile è quello per la miglior regia a Post tenebras lux del messicano Carlos Reygadas, tra i non pochi registi sopravvalutati da anni a Cannes, che ha squadernato senza ritegno allucinazioni di ogni tipo ai poveri spettatori in un film senza capo né coda. Non era l’unico, è vero: ma è l’unico che la battaglia di alcuni giurati deve aver imposto a Moretti (che difficilmente lo avrà apprezzato, essendo di gusti in genere rigorosi), superando la sua nota allergia alla violenza visiva e psicologica. Reygadas faceva parte quest’anno della pattuglia, sempre folta, degli autori fieri dell’incomprensibilità della propria opera. Quelli che rimangono giustamente marginali, ma rischiano – quando vengono vezzeggiati da festival e giurie – di compromettere il futuro del cinema “d’essai”. Il riconoscimento per la miglior regia poteva andare in mani migliori, come per esempio al russo Sergei Loznitsa per In the fog: ostico nei suoi flashback in alternanza con il presente, disperato nel raccontare uno squarcio di Seconda guerra mondiale tra violenze e indegnità, ma potente nella messa in scena, toccante, significativo. Non così di molti altri film, che si dimenticavano a titoli di coda non ancora conclusi.

Non era, questo, solo il caso dei tanti film di un’autorialità estrema (su tutti, Holy Motors di Leo Carax, con un attore costretto a cambiare innumerevoli travestimenti e personaggi in una facile metafora del cinema e della vita), ma anche di opere più vicine allo spettatore “normale”, ma fin troppo corrive nel cercarne il consenso; per esempio, con la consueta ricerca dello scandalo a tutti i costi “grazie” al sesso nelle sue numerose varianti o a un tasso di violenza che un tempo sin vedeva solo nei film di genere che ai festival non arrivavano o erano relegati nelle sezioni laterali. Tra i tanti film che non ricorderemo con favore, On the Road del brasiliano Walter Salles con cast hollywoodiano: rilettura patinata delle trasgressioni disperate del romanzo di Jack Kerouac, con attori promettenti ma forse troppo “puliti” per rendere credibili le loro giovani vite di eccessi, è sicuramente una delle tante delusioni di un festival che non ricorderemo con entusiasmo.

 

(di Antonio Autieri ed Emanuela Genovese)