A Milano, martedì scorso, in un multiplex abituato nei feriali al pienone al massimo per i film più “facili” e a pochi intimi per le opere più complesse, il tutto esaurito per The Way Back non se lo aspettava nessuno. Né i responsabili dell’Uci Cinemas Bicocca che ospitava l’evento, né noi di Sentieri del Cinema che lo organizzavamo, e che pure volevamo ardentemente far uscire questo grande film dalla pericolosa ombra di anonimato in cui si trovava. La risposta del pubblico – tanti amici che si sono fidati di una proposta che sembrava un azzardo nella canicola milanese con tante persone già in ferie e altri che sognano le vacanze – è stata bellissima e sorprendente.
Uscito pochi giorni fa, in un ridottissimo numero di cinema italiani, il film del ritrovato Peter Weir (assente da quasi un decennio dal cinema: ultimo film il bellissimo Master & Commander) è infatti uno di quelli che sarebbe un peccato perdere. Per il grande afflato epico – molti critici hanno accostato Weir a David Lean, regista di film come Il ponte sul fiume Kwai, Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago e tanti altri – e per l’esaltazione della libertà dell’uomo, più forte di ogni male. E non è interessante, in fondo, sapere se la storia raccontata (dal romanzo The Long Walk di Slawomir Rawicz, militare polacco internato in un Gulag sovietico) sia vera, oppure “rubata” dallo scrittore ad altri sventurati o, paradossalmente, anche inventata (ma Weir ha ricostruito nel film le storie di vari sopravvissuti ai gulag: le fughe di cui si parla nella pellicola, pur rare, avvenivano). Perché l’apologo su un’umanità che resiste al Potere e va avanti nonostante mille ostacoli è commovente senza bisogno di simili spiegazioni.
Siamo nel 1941: un soldato polacco si ritrova, accusato di spionaggio dalla moglie torturata dai sovietici, in un gulag in Siberia. Nel campo, da cui fuggire sembra follia non solo per i sistemi di guardia, ma per la natura circostante che promette morte a chi osa sfidarla, fa conoscenza con altri sventurati di varie nazioni, quasi sempre reclusi per reati di opinione; ognuno con la sua storia dolorosa. Ma alcuni provano a realizzare l’impossibile fuga. Qualcuno soccomberà, sulla strada si aggiungerà una ragazza (personaggio non troppo definito, ma che entra nell’anima), tutti insieme dovranno cercare di sopravvivere alla mancanza di acqua e cibo, attraversare la Siberia e la Mongolia e sopportare condizioni climatiche estreme e opposte (dai 40 gradi sottozero siberiani al deserto infuocato). Ma sempre desiderosi di libertà e di non perdere la propria dignità umana (l’ombra del cannibalismo trapela). E, qualcuno, anche di tornare a casa per perdonare la persona amata che lo ha tradito.
Sostenuto da un cast di nomi di prima grandezza (il giovane ed emergente Jim Sturgess, visto in Across the Universe e One Day, gli ottimi Colin Farrell e Mark Strong e, soprattutto, lo strepitoso Ed Harris: un vero gigante del cinema), Peter Weir torna ad alcuni temi a lui cari: la lotta dell’uomo contro il Potere (pensiamo a Truman Show, con l’ambiguo demiurgo interpretato proprio da Ed Harris), il fronteggiare situazioni più grandi di lui, l’unità di uomini cementati da amicizia e solidarietà (Gli anni spezzati, Witness, L’attimo fuggente, Master & Commander).
Il film si apre in una scena di tortura che ricorda Katyn per l’ambientazione e Le vite degli altri per i metodi. E come quelli, The Way Back è sia un coraggioso quanto raro nel cinema atto d’accusa contro i crimini del comunismo, ma anche un film che non pone l’accento sul rancore, sull’odio, sul Male ma sul barlume di umanità che può rimanere acceso, anche nel contesto peggiore, se lo si riesce a preservare. Magari grazie a un prete roso dai rimorsi, ma che sostiene la fede altrui.