Come da alcuni anni, riproponiamo anche alla fine di questa stagione una carrellata dei film -divisi in più puntate – da recuperare, tra le tante rassegne stagionali in arene estive e cinema al chiuso privi di novità ad agosto, dvd e cineforum che spunteranno come funghi da settembre in poi. Qualcosa potrebbe esserci sfuggita, ma come sempre il gran numero di titoli è significativo: il cinema, per fortuna, ci ripropone ogni anno bei film da vedere e rivedere. Cominciamo come sempre da dieci imperdibili, e in questa prima puntata i primi cinque. E non si può partire che dal trionfatore degli Oscar, The Artist di Michel Hazanavicius.
Sembrava follia un film muto ai giorni nostri, ovviamente in bianco e nero, per celebrare la stagione del cinema dei pionieri. Il regista francese, finora sconosciuto, ha elaborato un leggero e divertente omaggio al cinema, non senza emozione sincera, grazie alla storia del divo del muto (un perfetto Jean Dujardin) che cade in disgrazia all’arrivo del sonoro e della parallela ascesa di una soubrette innamorata di lui. Humour, ritmo (chi poteva pensare a un’operazione simile senza un filo di polverosa noia), nostalgia e omaggi al grande cinema: su tutti, l’inarrivabile Cantando sotto la pioggia, di cui The Artist ripercorre gran parte della storia. E Dujardin sembra un sosia di Gene Kelly.
Il suo rivale agli Oscar è stato un altro grande film che omaggia la storia del cinema dei pionieri. Hugo Cabret, che Martin Scorsese ha realizzato nel miglior 3D mai visto finora (come ha ammesso anche James Cameron, che il 3D l’ha sperimentato per anni prima di girare Avatar), mette insieme il dramma del rimanere soli al mondo, la nostalgia per il padre, il desiderio di compimento e di cose grandi, e anche la rievocazione di uno dei primi geni del cinema: Georges Meliès, prima ostico interlocutore dell’orfano Hugo Cabret e poi debitore a questo coraggioso ragazzino.
L’orfano Hugo vive nella stazione della Parigi anni ’30, di cui regola clandestinamente gli orologi: perso il padre in un incendio, vorrebbe aggiustare un automa da lui regalato; e il ragazzo ha lo stesso talento del padre, di aggiustare le cose. Ma un vecchio burbero è al tempo stesso nemico e chiave del mistero: si tratta di Meliès, un tempo famoso regista di film muti pieni dei primi effetti speciali e ora caduto in disgrazia.
Hugo vive, grazie anche alla nipote di Meliès, una grande avventura in cui scoprirà un talento ancora più grande: aggiustare le persone, trovare quel che manca loro; perché ognuno cerca il proprio compimento. Un grande film per tutti o quasi, dai bambini di 5 anni – che rimagono a bocca aperta di fronte alla magia della storia e del cinema, che viene svelata con una storia semplice e affascinante – agli adulti di ogni età (si pensi a come tratta il tema della frustrazione da desideri incompiuti, da successi perduti, da dolorose perdite).
Poi segnaliamo tre film anglosassoni, molto diversi tra loro, che hanno segnato la prima parte della stagione. Carnage è di Roman Polanski, uomo dalla vita controversa quanto dal talento indiscusso. Il polacco ormai apolide, scappato dall’America e da decenni residente in Francia (ma il film è in inglese), tornava al cinema dopo il periodo di prigionia per il noto scandalo di oltre trent’anni fa (e per chi non lo sapesse, aveva avuto rapporti con una ragazza minorenne, addirittura tredicenne). È un film “da camera”, quasi girato ancora agli arresti domiciliari: prendendo una nota opera teatrale, Polanski impagina una veloce storia di banali tensioni tra due coppie – a causa della lite tra i rispettivi figli – che sfocia in un’escalation di recriminazioni, insulti, sfoghi incrociati in cui si creano alleanze impreviste che poi si sfaldano subito, perché tutti sono contro tutti.
Si ride tanto, anche se emerge un quadro dell’umano devastante tra spregiudicatezza, ossessione del politicamente corretto e sottile violenza nei rapporti. Ma c’è anche un finale pieno di speranza, che ci riporta all’esterno di quell’appartamento borghese di New York (anche se in realtà è stato girato in Francia: Polanski non può mettere piede negli Usa) e sul luogo della rissa iniziale.
Se Polanski è un maestro riconosciuto del cinema (che avrebbe meritato il Leone d’oro a Venezia 2011: altro che l’oscuro Faust del criptico russo Alexander Sokurov), Drive è la consacrazione del talento emergente Nicolas Winding Refn. Il bravissimo Ryan Gosling è un giovane che si divide tra un lavoro da stuntman e “lavoretti” illegali che sfruttano la sua estrema bravura al volante. L’incontro con una ragazza gli apre il cuore, ma lei è sposata: decidere di aiutare il marito, sempre nei guai, lo porterà in una spirale da cui sarà difficile uscire.
Spettacolare e romantico, pieno di stile ma anche di violenza, Drive non è un film per tutti: alcune esplosioni confinano con lo splatter e “tagliano fuori” i più sensibili, mentre qualcun altro lo può trovare fin troppo meditativo. Ma sei ha gusto per la scoperta e una certa resistenza a certi eccessi visivi, ci si trova davanti a un film sorprendentemente struggente, in cui azione, violenza e motori si mescolano a sentimenti forti; come il desiderio di un amore che potrebbe dare una svolta all’esistenza e un amaro senso di sconfitta, di rinuncia, di sacrificio cui non riesce a rimanere indifferenti.
Sempre Ryan Gosling, per finire, è il protagonista de Le idi di marzo, diretto e interpretato da un George Clooney sempre più artista a tutto tondo: misurato e affascinante interprete di un candidato alla presidenza Usa progressista e “giusto”, Clooney ha avuto la generosità e intelligenza di lasciare spazio a un cast straordinario (oltre a Gosling, da citare anche i giganteschi Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti, ma anche Marisa Tomei). Un quadro amaro che svela non solo il marcio della politica e delle lotte per arrivare al potere, ma disintegra le illusioni e le utopie, che spesso incarnano volti sorridenti e per questo sono più violente che mai.
Interpretazioni da urlo, battute pungenti, sceneggiatura di ferro, tocchi di stile notevoli – la lotta politica ha toni e durezze da gangster, e il film prende in vari momenti il taglio del “mafia movie”, con tanto di angoli bui e vicoli in cui eseguire regolamenti di conti senza sangue ma non meno crudeli – per uno dei grandi film americani dell’anno, forse meno compreso di quanto meritasse.
(1 – continua)