Continua la nostra carrellata tra i migliori film della stagione appena conclusa. Da recuperare nelle rassegne e arene, in dvd, nei cineforum in autunno. In questa terza puntata vi proponiamo i primi dieci film “consigliati”. Cominciamo da Super 8, bel film per ragazzi e per ex ragazzi degli anni ’70 e ’80, diretto dall’autore di Lost J.J. Abrahms e prodotto dal suo maestro Steven Spielberg. Super 8 recupera atmosfere e temi dei film d’avventura per teenager di quei decenni, come, ad esempio, il mitico I Goonies. Ma con lo stile di oggi, quindi più azione, più effetti speciali e più dramma: il giovane protagonista ha perso la madre, uccisa per imprudenza e distrazione da un ubriacone la cui figlia diventa carissima amica del ragazzo, senza contare qualche blanda allusione al clima da paranoia e strapotere dell’esercito da fantascienza adulta. Però, l’amicizia tra ragazzini forgiata da pericoli rocamboleschi e primi palpiti amorosi ricorda tanti film della nostra giovinezza. Forse il finale è un po’ semplicistico (c’è di mezzo una creatura misteriosa e spaventosa ma non troppo), ma è un film che piace a ragazzi in cerca di storie grandi e a grandi che ricordano con nostalgia quando erano ragazzi, grazie anche a una colonna sonora da urlo e a battute cult sulla tecnologia: dalle audiocassette, nuove “diavolerie” che permettono di portarsi dietro la musica, alle foto da sviluppare in tre giorni…
Sempre di genere fantascienza, ma assolutamente contemporanea e piena di riferimenti all’attualità è Contagion, film sottovalutato di Steven Soderbergh che schiera un super cast (Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet, Lawrence Fishburne, Jude Law, Marion Cotillard e tanti altri): qui la paranoia la fa da padrona, quando una febbre di origine animale si scatena in diversi punti del pianeta, da cui si propagherà in fretta mandando a morte milioni di persone in tutto il mondo. Pochi coraggiosi scienziati cercheranno di trovare un antidoto: intorno a loro, mitomani, eroi, pavidi e persone senza scrupoli che cercano di guadagnarci. Il ritmo è sincopato, gli attori sono eccellenti, la struttura drammaturgica solida per un film che colpisce per professionalità; e le riflessioni sono meno banali di quanto si potrebbe temere.
Ancora più notevole è il risultato di un thriller finanziario stranamente passato sotto silenzio (in un certo senso è il film più attuale della stagione): Margin Call di J.C. Chandor. Qui il contagio è quello, reale, della crisi finanziaria di cui tutti paghiamo le conseguenze. Con perfetta tenuta delle unità di tempo/luogo/azione, si racconta del crollo di una finanziaria che ha inondato l’America (e non solo) di titoli spazzatura: il licenziamento, per motivi di riduzione dell’organico, di un analista che stava scoprendo l’imminente crac fa scoppiare lo psicodramma. E si vedrà la stoffa umana di chi si trova ad affrontare il tracollo: dal capo, uno squalo interpretato da un gigantesco Jeremy Irons, ai manager fino agli impiegati e analisti più o meno esperti; nel cast attori bravi e al massimo della forma, da Kevin Spacey a Stanley Tucci, da Demi Moore a Paul Bettany, passando per giovani meno noti ma non in parte.
Con Midnight in Paris Woody Allen ha offerto al suo pubblico di affezionati uno dei suoi film recenti migliori: Owen Wilson veste i panni “alleniani” di uno sceneggiatore americano in vacanza a Parigi con fidanzata e genitori insopportabili di lei, che non sopporta il suo presente (tutti attorno a lui sono troppo snob o conservatori e non capiscono l’arte) e sogna i tempi eroici degli anni ’20, quando la capitale francese pullulava di geni della letteratura e dell’arte. E, per magia, a mezzanotte si ritrova in quell’età, tra Hemingway, Scott Fitzgerald e signora, Picasso e tanti altri, più una deliziosa ragazza francese che gravita attorno a loro e lo prende in simpatia. Allen ha fatto nella sua carriera capolavori decisamente più profondi, ma negli ultimi vent’anni anche tanti passi falsi (a seguire dopo il film girato in Francia, l’“italiano” e pessimo To Rome with Love): quindi, ci si può accontentare di questo arguto divertissement, pieno di fantasia, citazioni e allusioni. Con una morale: rimpiangere il passato non serve a vivere, meglio scoprire il buono che c’è nel presente.
Altro autore straniero che ha deciso di girare in Francia un film pieno di fantasia è l’austero Aki Kaurismaki. Miracolo a Le Havre è infatti una fiaba laica che mette insieme compassione e solidarietà sociale (il protagonista aiuta disinteressatamente un piccolo immigrato, rischiando grane con la polizia), e speranza in un miracolo ancorché senza nulla di religioso: la moglie malata di cancro può essere salvata solo da qualcosa di inspiegabile, come lo è anche il cambiamento a sorpresa di un poliziotto arcigno. Anche qui siamo lontani dalle cose migliori del regista finlandese, ma il film sorprende comunque per leggerezza: tutti i personaggi fanno simpatia e l’umorismo è meno glaciale e cerebrale del solito; in alcuni momenti si ride di gusto.
Si rimane in Francia con Quasi amici, uno dei casi della stagione: la storia del tetraplegico in sedia a rotelle e del suo “badante” nero, ispirata a una storia vera, è stata un successo clamoroso in patria e anche altrove è andato bene. Una storia a rischio di cliché a non finire, ma riscattata da un lato da un umorismo scatenato e scorretto, che rende il rapporto tra i due personaggi così distanti tra loro non retorico e quindi più vero, dall’altro per un’attenzione a sfumature interessanti nel descrivere i rispettivi ambienti; per esempio, quello del “povero” ragazzo di colore, ovviamente degradato ma non descritto in modo banale. Una storia semplice ma efficace, che è anche una lezione a chi cerca di portare al cinema vicende astruse e poco interessanti: al pubblico piace ancora emozionarsi con storie semplici (ma non false); e con un po’ di sensibilità ci si può riuscire.
Due tra i film americani più belli dell’anno avevano come protagonisti altrettanti divi di Hollywood, molto amati in Italia (e molto amici tra loro): George Clooney e Brad Pitt. In Paradiso amaro, Clooney è un avvocato possidente, insieme a molti cugini, di grossi terreni alle Hawaii, quindi ricco e potenzialmente – se deciderà di vendere tale “paradiso” a speculatori – ricchissimo; al contempo, è un uomo distrutto, giacché la moglie è in coma per un incidente e le figlie sono quasi sconosciute per lui. E dovrà imparare a essere padre, e uomo, dopo aver pensato solo al lavoro per anni: un tentativo reso ancora più duro dalla scoperta di segreti sulla moglie e sul loro triste matrimonio e dal rapporto con le figlie, in particolare la primogenita adolescente. Clooney è formidabile nel rendere credibile un personaggio goffo e pieno di limiti (tenendo a freno la sua naturale simpatia, che qui sarebbe stata fuori luogo), e il regista Alexander Payne – tra i migliori autori americani – sa impaginare con sensibilità una commedia amara, venata di umorismo triste: una storia, dolorosa ma piena di senso, in cui il protagonista deve scegliere tra la resa alle macerie della propria esistenza e una speranza di rinascita, tra il vittimismo e l’ammissione dei propri errori, tra l’odio e il perdono.
Gran bel film è anche L’arte di vincere, con Brad Pitt nei panni di un manager di una piccola squadra americana di baseball che si vede portar via ogni anno i suoi assi dai club più forti. Lui, Billy Beane (la storia è vera), vede la squadra sprofondare, mentre la vita privata non va meglio: separato dalla moglie, che vive con un altro uomo, vede poco la figlia; e di questo soffre molto. La scossa arriva dall’incontro con un giovane (l’eccellente Jonah Hill), che diventerà suo assistente nelle strategie per la scelta dei giocatori, e dalla sua capacità di scegliere e valorizzare gli atleti. Un bel film sullo sport e sulla vita, e soprattutto su un uomo sempre inquieto e mai soddisfatto, in guerra con l’esistenza e con se stesso (e anche con gli altri: soprattutto chi non capiva le sue innovazioni). Un ritratto profondo, quello disegnato dal regista e sceneggiatore Bennett Miller, per un film che sarà riproposto anche al Meeting di Rimini. Da vedere.
Un bel film italiano, invece, è Scialla!, debutto alla regia dello sceneggiatore Francesco Bruni (dalla consolidata carriera, soprattutto a fianco di Paolo Virzì). Una commedia brillante e spigliata, in cui un ex professore di mezza età disincantato e svogliato scopre di avere un figlio che non sapeva di avere: un ragazzo vitale, coatto e sbruffone, con cui dovrà imparare (all’inizio senza rivelargli chi è) ad andare d’accordo e a capirsi. Si rischiano anche qui una serie di luoghi comuni: ci sono una ex pornostar simpatica e di buon cuore, un boss che ama la cultura, due baristi invadenti ma affabili e perfino un bidello ironico e saggio, senza contare lo slang tipico degli adolescenti e la solita scuola dove professori sono benintenzionati e frustrati e si fa tutto fuorché studiare. E anche il tema di fondo dell’uomo depresso risvegliato dalla riscoperta della paternità non è certo nuovo. Ma sapienza di scrittura, ottimi interpreti (su tutti Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova e l’ottimo esordiente Filippo Scicchitano, ora richiestissimo) e una serie di buoni spunti ne fanno un bel film: il disvelamento di desideri veri e mai immaginati (la paternità per l’uno, avere un padre per l’altro), l’importanza dell’educazione non solo nel rapporto tra genitore e figlio ma anche nella storia laterale – molto divertente e anche illuminante – di un giovane boss, arrogante però amante della cultura appresa sui banchi di scuola; un’educazione che al momento giusto farà sentire, a sorpresa, i suoi benefici effetti.
Ed è un altro film italiano, forse il più bello della stagione, per produzione e regia ma girato in inglese (con un budget notevole) in Irlanda e in America This Must be the Place del talentuoso Paolo Sorrentino (Il divo, Le conseguenze dell’amore). Interpretato da un grande Sean Penn (che si innamorò dell’autore napoletano a Cannes, quando premiò Il divo) nei panni di una star del rock in pensione e in crisi, è la storia di una riscoperta del padre e di sé. A cinquant’anni, Cheyenne torna negli Usa per andare dal padre in fin di vita, che non vede da trent’anni. Scoprirà segreti del suo passato e si metterà in un viaggio che lo costringerà a fare i conti con i suoi fantasmi. Un film sostenuto da stile, musiche e attori di gran classe, This Must be the Place: titolo preso da una canzone dei Talking Heads il cui leader David Byrne compare nel film nei panni, e nella voce, di se stesso. Sean Penn incarna alla perfezione un difficile personaggio di ex cantante e ancor più di uomo alla deriva, in un film che regala un’immagine del matrimonio bella e non convenzionale, mentre il tema della ricerca del padre e della scoperta di essere figlio (identità sempre rinnegata) si accompagna al desiderio di un’impossibile paternità (quando Cheyenne incontrerà un ragazzino figlio di madre sola), Pur con alcuni limiti (l’innesto del tema dell’Olocausto, che suona forzato), un grande film che conferma il talento del regista napoletano, già alle prese con un nuovo film che ha appena iniziato a girare.
(3 – continua)