I premi cinematografici sono fatti per far discutere gli appassionati e soprattutto gli addetti ai lavori. I principali festival non fanno eccezione, anzi. Perché se agli Oscar votano gli oltre 6000 membri dell’Academy, se ai David di Donatello i votanti sono quasi duemila, le giurie festivaliere sono composte da meno di dieci persone. Tutte di provenienze e spesso gusti diversissimi. Alla Mostra di Venezia, conclusasi sabato 8 settembre, con il presidente di giuria, l’americano Michael Mann, c’erano colleghi di varie cinematografie come l’israeliano Ari Folman (Valzer con Bashir), la svizzera Ursula Meier (Sister), l’argentino Pablo Trapero (Mondo Grua) e l’italiano Matteo Garrone. E poi l’artista e performer serba Marina Abramovic, le attrici Laetitia Casta (francese) e Samantha Morton (inglese), il produttore e regista di Hong Kong Peter Ho-Sun Chan. Tutte persone degnissime, ma, come si diceva, dai gusti e dalle esperienze artistiche molto diverse.

Michael Mann, uno dei più grandi registi di Hollywood, meriterebbe rispetto da parte degli osservatori italiani: che ora, solo per la delusione di mancati premi di peso a Bella addormentata di Marco Bellocchio, lo hanno messo nel mirino insieme a tutti gli altri. E Garrone? Tutti si chiedono quanto abbia difeso i “nostri”: la solita domanda provinciale che la stampa italiana si fa quando perdiamo. Altra perplessità: possibile che registi come Bellocchio hanno costruito tutta la loro fama su una carica polemica e corrosiva di “sistemi” vissuti come oppressivi (la famiglia, la Chiesa, la borghesia, la società stessa) e poi loro, e soprattutto i loro sostenitori, cercano una consacrazione “formale” da una liturgia come quella festivaliera? Si può passare la vita a combattere i dogmi, di ogni tipo, e poi non prendere le distanze da chi pretende per i propri film un consenso assoluto e, appunto, dogmatico, quasi fideistico? Si può dire con serenità che quel che appare a qualcuno un capolavoro è al massimo un film ben confezionato, con momenti magistrali ma anche non poche banalità?

Anni fa si parlò di scippo a Bellocchio per il suo Buongiorno, notte, ora – un po’ meno, per la verità – c’è chi lamenta analoga sorte per Bella addormentata: sembra che la mancata vittoria, per un film che a quanto pare non ha ottenuto in giuria quegli apprezzamenti unitari che si speravano, sia un affronto, un caso di lesa maestà. Non fa sorridere, tutto ciò, se si pensa al Bellocchio “arrabbiato”, rivoluzionario, contro la “cultura dei padri”? Va bene che si nasce incendiari e si invecchia pompieri, ma insomma… Se si realizza un film per una battaglia, come in questo caso a favore dell’eutanasia o quanto meno delle libere decisioni sulle cure di fronte alla “fine vita”, premi e allori dovrebbero passare in secondo piano. O no?

Chiariamo subito un punto: il verdetto della 69ma edizione della Mostra di Venezia non ci convince molto. In particolare, la vittoria del Leone d’oro assegnata a Pietà del sudcoreano Kim Ki-Duk (autore che, al contrario di molti critici, non abbiamo mai amato tantissimo, ma che in passato ha comunque realizzato alcuni buoni film): in un’annata piena di buoni film in concorso ma nessuno inattaccabile, si poteva comunque scegliere di meglio. Pietà ha una storia che, ridotta all’osso sarebbe interessante e anche significativa, con i temi della vendetta, del perdono, della redenzione; e il regista ha fatto esplicito richiamo a echi religiosi di questi spunti. Ma, come spesso nel suo cinema, sono compromessi da un tasso di violenza oltre il sopportabile e da immagini respingenti e gratuite; e in Corea, peraltro, sul tema della vendetta il collega Park Chan-Wook ha realizzato pochi anni fa una trilogia con esiti superiori (specie con Old Boy) e maggior originalità narrativa.

Al massimo Kim Ki-Duk poteva meritare un premio secondario, come il Leone d’argento alla regia o il Premio speciale della giuria: le qualità visive sono indiscusse. Diciamo così: speriamo solo che la vittoria gli serva per combattere quella depressione terrificante che pochi anni fa lo portò a un passo dal suicidio, come raccontò in un toccante documentario presentato a Cannes 2011.

Scartato subito dai giurati To the Wonder di Terrence Malick, grandissimo film del regista considerato finora il maggior genio vivente nel cinema e ora caduto in disgrazia forse per la sua decisa virata religiosa (ma fidatevi: se avete amato The Tree of Life, vi commuoverete pure per questo nuovo, imperfetto film), era The Master il film su cui sarebbero dovuti cadere i favori della giuria. E in effetti alcune voci davano Michael Mann e compagni in procinto di assegnare Leone d’oro e altri premi principali al film di Paul Thomas Anderson su Scientology: il regolamento vieta l’accumulo di premi con il vincitore assoluto, e allora si sarebbe optato per il Leone d’argento per la regia, oltre alla Coppa Volpi ex aequo ai due straordinari protagonisti del film: Joaquim Phoenix e Philip Seymour Hoffman. Ma il pubblico ristabilirà le giuste proporzioni, e The Master (che pure, dopo un’ora e mezza a ritmo intensissimo, si spegne un po’ nella parte finale: come il precedente titolo del regista, Il petroliere) sarà considerato in futuro il miglior film di questa rassegna.

Incomprensibile il terzo premio, quello speciale della giuria, a Paradise: Faith dell’austriaco Ulrich Seidl, sugli eccessi religiosi di una donna bigotta (con immagini stupidamente blasfeme); meglio il premio per la miglior sceneggiatura al francese Olivier Assayas (anche lui forse meritava di più) per Après mai, su un gruppo di ragazzi che negli anni post ‘68 sognavano di cambiare il mondo e sulle loro successive delusioni. Uno dei film migliori era l’israeliano Fill the Void dell’israeliana Rama Burstein, che ha fatto vincere la Coppa Volpi alla giovane attrice Hadas Yaron, su una comunità ortodossa osservata con sguardo controcorrente e coinvolgente fino all’emozione.

Detto di Terrence Malick e del suo eccezionale, inclassificabile nuovo film (nel senso che il suo cinema non c’entra nulla con il resto della produzione oggi circolante: ma certo era impensabile che gran parte del pubblico e della stampa fischiasse l’opera di un tale artista e apprezzasse l’inguardabile e volgarissimo Spring Breakers di Harmony Korine), al di là dei premiati abbiamo visto altri buoni film. A volte, forse, poco da festival o da concorso: come il francese Superstar, con ottimi attori, su uno sconosciuto che diventa una star senza sapere perché e quindi oggetto della fame dei media e del pubblico.

In ogni caso, ci sembra di poter dire che la 69ma Mostra di Venezia, che segnava il ritorno alla direzione di Alberto Barbera, si possa considerare più che positiva. Magari con i maggiori spunti di interesse sul fronte delle nuove scoperte piuttosto che del cinema già noto: a “maestri” come Takeshi Kitano o Brian De Palma che hanno deluso in concorso, o a Mira Nair che ha aperto la rassegna fuori gara con un film pieni di spunti poco sviluppati (sul tema dell’11 settembre e dei rapporti tra musulmani e Occidente), si contrapponevano tanti nuovi registi spuntati in gara (come la citata israeliana, debuttante, Rama Burstein) e in altre sezioni. Molto brillante il concorso “minore” Orizzonti, dedicato al cinema sperimentale, che ha visto film che hanno commosso gli spettatori: da Wadjda (che uscirà in Italia con il titolo La bicicletta verde) di Haifaa al Mansour, primo film diretto da una donna saudita in una nazione che alle donne riserva – come racconta con semplicità il film – divieti e umiliazioni e che mette in primo piano una bambina comicissima e testarda che si batte per poter avere come i coetanei maschi una bicicletta; agli italiani Gli equilibristi di Ivano De Matteo, appassionata storia di una famiglia in crisi economica e affettiva con un grande Valerio Mastandrea, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo (già nelle sale) su due ragazzi nella Napoli afflitta dalla criminalità ma ancora innocenti, o Bellas Mariposas di Salvatore Mereu che sa raccontare i ragazzini come pochi. Ma anche l’inglese Boxing Day, il cinese Fly with the Crane (che però cade parecchio nel finale) e altri che probabilmente non si vedranno mai nei nostri cinema.

E quanto agli italiani, al celebrato Bellocchio di Bella addormentata (tanto magistrale dal punto di vista visionario, soprattutto nella celebrata scena della sauna in Senato che è un’invenzione narrativa geniale, quanto parziale nel raccontare le storie che si incrociano a lato del dramma di Eluana Englaro), o agli altri film in concorso ovvero È stato il figlio di Daniele Ciprì (che ha vinto un premio per la fotografia e il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente Fabrizio Falco) e Un giorno speciale di Francesca Comencini, preferiamo appunto i titoli apparsi nelle sezioni “minori”. Oltre ai tre già citati titoli in Orizzonti, da segnalare La città ideale: esordio alla regia dell’attore Luigi Lo Cascio, in concorso alla Settimana della Critica (sezione autonoma da quelle ufficiali, e quest’anno molto vivace, come anche Le giornate degli Autori), è un film ambizioso dal punto di vista dello stile – che guarda a modelli letterari alti come Kafka, Pirandello, Sciascia, e somiglia cinematograficamente al primo Polanski – e arguto nel fare a pezzi l’idea di un’utopia (il protagonista, lo stesso Lo Cascio, è fissato con la cura per l’ambiente) che possa realizzare la vita. Curioso, imperfetto come tanti altri film visti a Venezia, ma vitale.

Come lo possono essere visioni nuove, di autori che si affacciano ancora freschi al cinema, per dire qualcosa e non solo per vincere un premio o provocare inutilmente.