Penultima parte della nostra carrellata tra i migliori film della stagione appena conclusa. Da recuperare nelle rassegne e arene, in dvd, nei cineforum in autunno. In questa quinta puntata vi proponiamo dieci film “scommessa”. Ci sono film che contengono sempre un po’ d’azzardo: dipendono molto dai gusti, dall’umore in cui ci si trova, dal grado di curiosità per il cinema (parziale, totale…). Alcuni di questi sono molto belli, ma richiedono magari qualche attenzione in più prima di avvicinarsi all’opera.

È il caso per esempio di Cesare deve morire, il film che ha rilanciato la coppia di maestri (invero da decenni poco ispirati) del cinema italiano, ovvero Paolo e Vittorio Taviani che con questo film hanno trionfato al festival di Berlino e ai David di Donatello. I registi di La notte di Padre padrone e La notte di San Lorenzo partono dal lavoro del regista teatrale Fabio Cavalli con i detenuti del braccio di massima sicurezza di Rebibbia: quello che sembra all’inizio un documentario su un Giulio Cesare shakespeariano tra le mura carcerarie diventa un apologo riuscitissimo su libertà, pena, vendetta. Il film scuote e avvince, in un bianco e nero inciso e con le cadenze dialettali di mezza Italia dei detenuti (e dell’unico attore vero: Salvatore Striano, che interpreta Bruto e che dal carcere uscì anni fa; ha recitato anche in Gomorra). L’arte libera temporaneamente chi la libertà l’ha persa per sua colpa: su questa tesi si potrebbe discutere, ma il film è da vedere a prescindere. Sempre che si voglia accettare la sfida estetica dei Taviani. Da cineforum.

L’humus criminale è lo sfondo, insieme al tema dell’immigrazione e dell’integrazione, anche di un film italiano per produzione e regia, ma girato per lo più in francese, l’opera prima Là-bas- Educazione criminale. Per il giovane senegalese Yousssuf l’arrivo a Napoli e dintorni è subito la scoperta di un altro mondo. Connazionali che vendono fazzoletti ai semafori, altri immigrati che vivono accalcati in modeste abitazioni, violenza strisciante ovunque. “Grazie” a uno zio e ai suoi traffici di cocaina, arrivano soldi, bei vestiti, rispetto e protezione, e un’educazione al crimine necessaria per sopravvivere in una zona che sembra un teatro di guerra. E infatti ben presto arriveranno i problemi, in un’area – dominata dalla Camorra – in cui le alleanze e gli equilibri per il controllo del territorio sono sempre a rischio. Là-Bas, esordio di Guido Lombardi, racconta le vicende dal punto di vista degli immigrati con estremo realismo grazie ad attori quasi tutti non professionisti; in varie lingue con i sottotitoli in italiano (si parla soprattutto in francese, ma anche vari dialetti africani e perfino napoletano), è un’opera che sembra europea e internazionale più che italiana; realismo duro e violenza per un piccolo film difficilmente recuperabile, ma è un peccato. Non c’è la solita idealizzazione falsa degli immigrati (tra di loro ci sono le vittime, ma anche i violenti), e soprattutto si vede la capacità di proporre personaggi a tutto tondo, squarci poetici notevoli e un regista interessante e talentuoso.

Parla di immigrazione e integrazione, con una narrazione classica, ma non meno “artistica”, anche un’altra opera prima di finzione (dopo anni di documentari); quella di Andrea Segre con Io sono Li. La protagonista, Shun Li, è una donna cinese in Italia, sfruttata da connazionali senza scrupoli (se lavorerà tanto, potrà far arrivare in Italia il figlio di 8 anni) e mandata da Roma a Chioggia, nel Veneto. Qui si incontra e si scontra con la realtà di provincia: tra curiosità e simpatia di facciata, un solo amico, il croato Bepi dall’animo poetico (il grande Rade Serbedgia); l’unico che davvero la capisca. La loro amicizia rende tutti, italiani e anche cinesi, sospettosi e perfino violenti. Una storia dura ma anche delicata, con pochi cliché (anche se qualcuno scappa) e una grande attenzione all’ambiente. Ottima la protagonista Zhao Tao, premiata con il David di Donatello. Nel cast anche Roberto Citran e Giuseppe Battiston.

Un’altra donna asiatica protagonista di un film bellissimo (cinese anche di produzione), passato come meteora nelle nostre sale e praticamente invisibile. A Simple Life, in concorso a Venezia 2011, è la storia di Ah Tao, umile domestica che ha consacrato la vita al servizio di una famiglia di Hong Kong. Dove rimane, quando tutti si trasferiscono a San Francisco, solo il quarantenne Roger, affermato produttore cinematografico. Tra lui e la donna il rapporto sembra solo formale, da padrone a serva. Ma quando la donna ha un infarto e inizia una dolorosa parabola discendente, sarà lui a prendersi cura di lei, cercandole una sistemazione dignitosa in una casa di riposo, andandola a trovare spesso, dimostrandole la gratitudine per una vita insieme alla sua famiglia. Un film commovente, che racconta la dignità nell’invecchiare e un rapporto particolare e sensibile, in una profonda riflessione sul valore dell’esistenza umana.

Rimaniamo in Asia con uno straordinario film di animazione: Il castello nel cielo di Hayao Miyazaki. Parlare di scommessa sembra strano, per un autore ormai amato anche in Italia (anche se i suoi film, o quelli da lui prodotti come l’imperdibile Arrietty di cui vi abbiamo già parlato, non incassano come meriterebbero da noi). Ma questo è un film di oltre 25 anni fa, prodotto nel 1986: ed era la prima produzione dello Studio Ghibli, fondato da Miyazaki dopo i primi suoi film (come Il mio vicino Totoro). Con disegni e personaggi che ricordano a tratti Porco rosso (altro film riproposto due anni fa) e una fantasia sfrenata degna dei successi La città incantata e Il castello errante di Howl, Miyazaki  racconta una straordinaria avventura, ancora una volta motivo della nascita di una bellissima amicizia tra un ragazzo e una ragazza, tra pirati, soldati, pietre magiche e un misterioso castello/pianeta volante. Tanti i temi cari all’autore: oltre all’amicizia, la purezza dei bambini, la violenza dei “grandi”, la tentazione del potere, lo stupore per la natura. Un po’ complesso, soprattutto per i più piccoli, ma godibile e trascinante.

Cambiamo fronte e spostiamoci su un gruppo di film francesi o francofoni. Come 17 ragazze della regista  Delphine Coulin, tratto da un fatto di cronaca avvenuto negli Usa e trasportato in Normandia. Le 17 ragazze del titolo sono adolescenti in dolce attesa di un bimbo tutte più o meno in contemporanea: dopo che una di queste scopre di essere incinta, e trasforma questo fatto in un gesto di rivolta contro la madre, altre 16 amiche decidono di emularla; con chi, non importa… Gli adulti non educano, le ragazze sono immature ma il film è – pur con una serie di limiti – un inno alla potenza della giovinezza, dell’amicizia e soprattutto della maternità. E si avvale di volti da cinema, freschi e irresistibili, che incarnano una domanda di felicità e di certezza sul futuro.

Polisse racconta invece il lavoro di un’unità di polizia a Parigi che si occupa di protezione dei bambini. La vita nel commissariato si svolge tra tensioni tra colleghi, conseguenze di problemi privati sul lavoro, sofferenze di fronte a bambini vessati da estranei o più spesso nelle loro famiglie. Un film duro, intenso, con un bel ritmo e piglio di regia – senza fronzoli, all’americana – da una regista che è anche attrice, Maiwen Le Besco. Ne risulta un ritratto, sincero e appassionato ma non facilmente edificante, di poliziotti sensibili e alle prese con decisioni non facili. Ottimo il cast, con grandi attori francesi visti tante volte sullo schermo ma non “di nome” (e c’è anche, in una particina, il “nostro” Riccardo Scamarcio).

Seguono due film sulla malattia, da confrontare e quasi vedere in sequenza. Premi e consensi ha riscosso La guerra è dichiarata della regista e interprete Valérie Donzelli: due giovani si incontrano e si innamorano a prima vista (si chiamano Romeo e Juliette: “Mi prendi in giro?”), vanno a vivere insieme, mettono al mondo un bimbo. Tutto va alla grande, loro sono giovani e belli: la vita sorride loro. Finché al bambino viene diagnosticata una rara e grave forma di tumore. Inizia il calvario delle viste mediche, delle terapie, della paura di perderlo e di crollare. Ma la Donzelli (che recita in prima persona, e insieme all’attore-compagno della sua vita, il dramma che davvero capitò alla loro vita: e la cosa inquieta non poco nel vedere il film…) evita il facile dramma e le ancor più facili lacrime ma impagina la narrazione come se fossimo in piena Nouvelle Vague; si soffre, si canta, si cerca di esorcizzare la paura ridendoci su. Il film impressione per stile e forza del racconto ma disturba anche un po’. La Donzelli ha talento di regista e di attrice come il suo partner Jérémie Elkaim, ma qualcosa non convince soprattutto nel finale (a maggior ragione perché si tratta di storia vera: ma non lo riveleremo…). Anche se impressiona la forza di questi genitori che si ritrovano in “guerra” e si scoprono fragili e inadeguati eppure non si arrendono mai, in dedizione totale verso il figlio.

Siamo negli stessi dintorni, con un film meno pubblicizzato ma a nostro avviso superiore e da riscoprire assolutamente. Tutti i nostri desideri rimette insieme la coppia formata dal regista Philippe Lioret e dall’attore Vincent Lindon già artefici del bellissimo Welcome. Claire è un giovane magistrato che si prende a cuore il caso giudiziario di Cèline, una madre povera e disperata contro una società finanziaria a causa di un prestito non restituito. Sposa e madre di due figli, Claire scopre di avere un tumore al cervello non curabile. Si butta anima e corpo nel caso di Cèline, aiutata dall’incontro e dall’amicizia singolare con un altro magistrato, Stèphane (il bravissimo Lindon). Qui la narrazione è più classica, anche se non priva di sorprese (che strana l’amicizia, che sembra preludere a un amore extraconiugale e fuori tempo massimo tra i due magistrati, e che bella la figura del marito di Claire e il loro rapporto). Ci si commuove di più che nel film precedente e senza vergognarsene: Lioret ci fa partecipare fino in fondo al dramma e al destino di Claire, senza colpi bassi e anzi mostrando la grande dignità della donna. Ma è impossibile restare a ciglio asciutto di fronte ad alcune sequenze, grazie anche alla prova della protagonista Marie Gillain.

Infine, chiudiamo con il sorriso con la commedia – sempre francese – Cena tra amici di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, che ricorda in parte Carnage di Polanski. Nella bella casa parigina dei coniugi Pierre ed Elizabeth si prepara una cena per Vincent, fratello della padrona di casa, e la sua compagna Anne che aspetta un bambino, e per l’amico single Claude. In attesa di Anne gli amici di vecchia data chiacchierano del più o del meno, finché scocca la fatidica domanda: come si chiamerà il bambino? Vincent rivela il nome: apriti cielo… Tratto da una commedia teatrale interpretata dalla stessa compagnia di attori affiatati (Patrick Bruel, Valérie Benguigui, Françoise Fabian, Charles Berling, Guillaume De Tonquedec), il film mette a nudo tic e pregiudizi di personaggi borghesi e progressisti. Dialoghi e battute rapide e irresistibili, frecciate e frustrazioni, riflessioni argute sulle nevrosi contemporanee. Rispetto a Carnage si sta un passo indietro (Polanski scava più a fondo nei guasti dell’umanità), e in fondo lo scopo è sorridere e ricomporre i contrasti tra persone che comunque si vogliono bene. Ma raramente quest’anno si è riso in modo più intelligente.

 

(1 – continua)