Ultima parte della nostra carrellata tra i migliori film della stagione appena conclusa. Da recuperare nelle rassegne e arene, in dvd, nei cineforum in autunno. In questa sesta puntata vi proponiamo altri dieci film “scommessa”: titoli magari non perfetti o molto “piccoli” o forse solo poco noti, ma su cui si può rischiare se si possiede un minimo di curiosità.
Partiamo con il duro e controverso Shame, visto a Venezia un anno fa e poi in sala a gennaio, diretto dal regista inglese Steve McQueen (nessuna parentela con il celebre attore). Interpretato da uno straordinario Michael Fassbender (attore emergente, anzi ormai emerso, che per questo film ha vinto la Coppa Volpi a Venezia e tanti altri premi nel mondo), è la discesa agli inferi di un uomo malato di sesso, anzi di pornografia. E incapace di rapporti veri con le donne, compresa la sorella dai comportamenti non meno regolari. Il protagonista Brandon vive la sua condizione con vergogna (da cui il titolo) e niente e nessuno sembra poterlo tirare fuori da apatia e dipendenza da ogni abiezione (sul finale non si risparmia nulla, e poco viene risparmiato allo spettatore: le persone molto sensibili si astengano dalla visione). Ma il film si fa apprezzare per la sincerità di fondo e per il bel finale, con un grido di disperazione al cielo che può essere l’inizio dell’uscita dal tunnel.
Il successo di Shame a Venezia ha permesso l’uscita in Italia, dopo 4 anni dalla vittoria a Cannes come miglior opera prima, del precedente film di McQueen, Hunger, sempre con Michael Fassbender come protagonista/mattatore in una prova non meno estrema e che ha il merito di riaprire una pagina nera della politica britannica. È la storia, nota a chi abbia almeno 40 anni, di Bobby Sands che nel 1981 – insieme ad altri militanti dell’Ira – sfidò con uno sciopero della fame dalle conseguenze fatali il premier inglese Margaret Thatcher (che rimase inflessibile fino alla fine e non fece alcuna concessione neanche di tipo umanitario) e la violenta polizia carceraria. Senza facili cadute ideologiche, il film mostra la disumanità della pena inflitta ai ribelli irlandesi annichiliti nella loro dignità (ma anche le vendette della controparte) e la fermezza di Sands, che non si ferma nemmeno davanti al dolore dei genitori e ai tentativi di un sacerdote. Ma colpisce anche lo stile, durissimo ma a tratti anche poetico nei momenti di agonia, di un regista tra i più interessanti della scena internazionale.
Passiamo a un film di fantascienza per teenager, legato al precedente solo da assonanza nel titolo: Hunger games. Maggior successo americano – a sorpresa – della stagione, in Italia non ha funzionato l’apologo terribile di un’America futuribile, chiamata Panem, in cui 24 giovani si devono uccidere a vicenda – in omaggio a un rito che deriva da una pacificazione dopo una sanguinosa guerra civile – davanti alle telecamere in gioco che prevede un solo vincitore/sopravvissuto (e quando due ragazzi si innamorano la cosa si fa ancora più straziante) con un meccanismo da reality che ricorda il Grande Fratello, non solo il programma ma anche quello “originario” di Orwell. Il primo romanzo della trilogia della scrittrice americana Suzanne Collins (si stanno preparando già gli altri due film) è portato sullo schermo da Gary Ross con uno stile intrigante e angosciante, anche se guardando un po’ troppo al pubblico di Twilight, e con eccessi che sono a tratti pugni nello stomaco (bambini uccisi a sangue freddo nel gioco e varie efferatezze). C’è però una coppia di protagonisti che convince: Josh Hutcherson (già ragazzo prodigio in Innamorarsi a Manhattan, Terabithia e Viaggio al centro della Terra) e soprattutto la straordinaria Jennifer Lawrence di Un gelido inverno e tanti altri film di un curriculum già ricco, che ha un personaggio tosto e sensibile al tempo stesso, di ragazza indomabile che punta a vincere soprattutto per tornare alla sua famiglia.
Altro apologo fantascientifico, angosciante e teso ma per un pubblico adulto e con maggior qualità cinematografica, e su uno sfondo assolutamente contemporaneo, è Take Shelter di Jeff Nichols, apprezzato in vari festival. Il protagonista Curtis LaForche, operaio con moglie e figlia sordomuta, fin da piccolo fu segnato dalla malattia mentale della madre; e a un certo punto anche lui inizia ad avere incubi e disturbi psicologici, a vedere nel cielo segnali inquietanti e minacciosi (di cui altri non si accorgono), a temere catastrofi spaventose e imminenti. O sta “semplicemente” scivolando nella follia? E mentre la dolce moglie Samanta cerca invano di aiutarlo, quando inizia a comportarsi in maniera preoccupante (iniziando a scavare un enorme rifugio sotterraneo per salvare la famiglia dalla tempesta apocalittica che crede essere in arrivo) attorno a lui si crea il vuoto. Ma è lui il folle o sono gli altri a non capire questo moderno profeta di sventure? Dotato di ottime capacità registiche, il talentuoso Nichols impagina la narrazione comunicando fortissima angoscia e continua suspense, grazie a immagini di grande impatto e a un gruppo di attori notevolissimi. Su tutti lo straordinario Michael Shannon (un po’ abbonato alle parti da folle) e la perfetta Jessica Chastain in un ruolo che ricorda quello ricoperto in The Tree of Life. Peccato per l’accumulo di finali, ma è una delle opere più originali viste quest’anno.
Non meno angosciante, anche se si parla di scuola e soprattutto di educazione e di aspirazioni frustrate alla felicità è Detachment – il distacco di Tony Kaye (che si rivelò anni fa con il durissimo American History X). Adrien Brody è un supplente con una triste storia personale alle spalle: arrivato in una scuola in decadenza, e con gravi tensioni tra insegnanti e famiglie ma soprattutto grave degrado tra i ragazzi, cerca di sfuggire al clima depressivo aiutando come può allievi e non (diventa amico di una prostituta adolescente). Come il professore Keating de L’attimo fuggente, ma con più verità e senza i suoi artifici retorici, conquista il cuore degli allievi ma non sa gestire l’esplosione delle conseguenze più drammatiche: una volta saltato il tappo di una domanda repressa, il cuore reclama risposte nette. E il professor Barthes non ne ha da dare. Con uno stile forse fin troppo moderno e a tratti spiazzante e colpi bassi a ripetizione (anche qui, alcune scene richiedono una maturità degli spettatori), il film si fa ricordare per una radicalità nel proporre le questioni decisive della vita, e non solo della scuola (anche se la necessità di un maestro è chiara): cosa ci sto a fare al mondo? Come posso vivere senza essere voluto bene? Doppio finale, prima tragico e poi aperto alla speranza.
Spostiamoci in Italia con due film diversi eppure legati tra loro. Acab (ovvero l’acronimo-sottotitolo di All Cops Are Bastards: tutti i poliziotti sono bastardi), è l’esordio cinematografico di Stefano Sollima, regista che si è fatto le ossa in tv con le varie serie Sky di Romanzo criminale. Qui racconta il lavoro dei poliziotti della Celere, un lavoro duro e sotto pressione: mandati spesso allo sbaraglio (nelle manifestazioni politiche e di protesta o allo stadio), sono bersaglio di odio, provocazioni, oggetti da subire senza reagire. E invece i protagonisti del film reagiscono, spesso e volentieri. Legati da lealtà e codice d’onore, finiscono per fare sovente quel che non dovrebbero, sconfinando nella violenza e perfino nell’illegalità; sempre pensando di essere nel giusto. Il merito del film è di non essere ideologico, anche se non mancano le semplificazioni. Ma grazie anche a un gruppo di attori affiatati e in gran forma (Marco Giallini, Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e l’esordiente Domenico Diele) e a senso del ritmo da film d’azione americano, risulta coinvolgente e convincente. Senza far sconti ai poliziotti violenti (il giudizio su chi sbaglia è netto), ma anche cercando di comprendere le ragioni. Spesso ricorre nei loro discorsi la triste pagina del G8 di Genova e del pestaggio alla scuola Diaz: riferimento che suona forse un po’ forzato, ma che lo rende corollario dello stesso film Diaz di Daniele Vicari, uscito pochi mesi dopo.
Qui le ambiguità e le cose poco convincenti sono maggiori: nel ricostruire i fatti il taglio è parziale (e ha scontentato posizioni politiche opposte), a cominciare dalla quasi assenza – se non per un breve accenno iniziale – della morte di Carlo Giuliani di quel maledetto 20 luglio 2001. Che scatenò ulteriori tensioni, dopo tre giorni in cui i black block (anche su loro si fa vedere poco) giunti da tutto il mondo avevano rovinato proteste legittime e pacifiche. Erano i black block che cercavano Polizia e Carabinieri alla scuola Diaz: ma il pestaggio violentissimo colpì tante persone inermi e innocenti. Nonostante le (anche gravi) pecche, Diaz è un film importante e onesto, e che sarebbe sbagliato liquidare, per come fa percepire senza sconti la violenza sanguinaria di chi, in divisa, doveva preservare l’ordine pubblico e difendere i cittadini che invece massacrò.
E nel riaprire un’oscura pagina della recente storia italiana, è sembrato più diretto e sincero di un altro film “politico” come Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana (che rievoca la strage di Piazza Fontana), in cui grande cura nei dettagli e cast straordinario passano in secondo piano rispetto a tesi storiche non suffragate da prove. Diaz si limita alla cronaca, evitando la fantapolitica.
Concludiamo questa carrellata con tre commedie, anche se “serie”. Almanya è la storia di una famiglia turca emigrata in Germania, al seguito del capostipite Hüseyin. Ormai anziano, riceve insieme alla moglie il passaporto tedesco sospirato tutta la vita, quando ormai non lo desidera più. I figli e nipoti sono integrati, ma hanno i loro problemi. Ma a un certo punto il vecchio Hüseyin impone a tutti una vacanza in Turchia, per tornare a rivedere i luoghi natii (ha comprato un terreno e vuole costruirci una casa): controvoglia tutti lo seguono. Scoppieranno vari drammi, ma nascerà anche una diversa consapevolezza delle proprie tradizioni. E quando sembra sterzare decisamente verso il dramma (ma non riveleremo come), il film vira verso un finale commovente e divertente al tempo stesso in cui avrà un ruolo anche la cancelliera Angela Merkel. Non tutto convince, ma il tono e lo stile a tratti surreale scatenano molti momenti di ilarità, mentre non mancano i motivi di riflessione, sull’identità e sulla famiglia (meno riuscito il versante religioso, con battutacce sui cristiani in parte giustificate dalla scarsa conoscenza e dalla fantasia infantile).
Dall’America sono passate due bei film poco considerati. Strano il caso del recente La mia vita è uno zoo, non perfetto ma comunque un buon film sulla famiglia diretto da Cameron Crowe con un cast di peso (Matt Damon e Scarlett Johansson su tutti): sulla ridotta uscita italiana deve aver pesato l’insuccesso americano. Matt Damon è Benjamin, un giovane vedovo che per ripartire con i suoi due figli (un ragazzo adolescente e una bambina di 7 anni) decide di cambiare città. Cercando un nuovo posto per sé e per i ragazzi, trova una casa con annesso uno zoo in decadenza con 200 animali e i suoi sconfortati dipendenti. Decide la follia: acquistare il tutto e riaprire lo zoo. Il problema è che non sa nemmeno da dove cominciare: tra mille difficoltà, una grossa mano gliela dà la giovane e bella Kelly. Ma tutti attorno a loro sembrano ridare la voglia di vivere a Benjamin e ai suoi figli. La mia vita è uno zoo ha un certo tasso retorico e “zuccherino” che all’inizio infastidisce. Ma Crowe (considerato anni fa a Hollywood un grande talento, ma che è forse sempre stato un po’ sopravvalutato) sceglie saggiamente la via della semplicità: drammi e difficoltà sono funzionali a una maturazione di tutti i personaggi e una visione positiva della vita. E come in un bel vecchio film Disney “con attori” di una volta, si può vedere la pellicola tutti insieme in famiglia. Quanto agli animali, il sospetto di una simpatia maggiore per loro che per gli umani è fugato nella battuta finale, affidata alla ragazzina con una cotta per il figlio di Benjamin, che tra persone e animali non ha dubbi su chi preferisce.
Infine, ancor più una meteora è stato un altro bel film (più adulto) che alterna dramma e commedia e che disegna un bel ritratto della famiglia. Mosse vincenti di Thomas McCarthy (che si segnalò anni fa con L’ospite inatteso) vede il grande Paul Giamatti nei panni di un avvocato con vari problemi economici e una preoccupante apatia. Per arrotondare, prende dal giudice cittadino il ruolo di “tutore” di un anziano malato di Alzheimer e senza famiglia (non disinteressatamente come fa pensare). Ma quando spunta in città un suo giovane nipote, e poi la sciroccata madre di lui, capisce che si è ficcato in una vicenda ben più complessa. E prima si affeziona al ragazzo, scombussolato e bisognoso di affetto e al tempo stesso con un grande talento nella lotta libera (attività di cui l’avvocato si diletta come allenatore di una squadra giovanile). Poi dovrà spiegare le zone d’ombra delle sue azioni. Anche questo è un film che ha il pregio di mostrare una visione positiva ma non ingenua della vita, con un’attenzione al ruolo della famiglia (bello e discreto il personaggio della moglie) e dell’educazione. Rende convincente l’opera l’interpretazione di Giamatti che fa del suo avvocato non un santo, ma anzi un uomo qualunque riscattato dalla sua mediocrità per aver accettato le svolte inattese della vita.
(2- fine)