Il festival di Cannes che si è concluso ieri è stato complessivamente di buon livello, ma non così indimenticabile come a caldo qualcuno proclama. Per quel che ci consta, è sicuramente inferiore, solo ad aver buona memoria, a quello memorabile di due anni fa: con vincitore The Tree of Life, e a ruota la rivelazione The Artist, e poi Il ragazzo con la bicicletta, Miracolo a Le Havre, l’emozionante (anche se a tratti violento) Drive, e pure l’italiano This Must be the Place… E l’inaugurazione con Midnight in Paris di Woody Allen (certo più apprezzato de Il grande Gatsby). Poi ci furono tanti altri titoli dimenticabili, ma alla fine ci si ricorda solo le cose migliori, se sono di tale valore…
Quest’anno invece il livello medio era alto, è vero. Pochi film davvero brutti, forse nessuno, in concorso, ma neanche tantissimi film davvero senza pecche. Soprattutto con un equilibrio tra qualità artistiche e uno sguardo alla contemporaneità e all’umanità davvero coinvolgente. Di quelli che consiglieresti a tutti di andare a vedere, appena escono al cinema. Alcuni titoli, tra quelli osannati o addirittura premiati, pur senza essere mattoni indigeribili come a volte Cannes ha consegnato alla storia (pochi anni fa l’improbabile film thailandese Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti fu premiato dalla giuria presieduta dallo sventurato Tim Burton: chissà che gli saltò in mente), tendono a escludere parte dei potenziali spettatori: per un uso eccessivo della violenza o di immagini scabrose. Solo a voler considerare che al cinema ci va ancora un pubblico normale, che non si deve per forza convincere della propria impostazione estetica o ideologica. Ma è noto che tali ragionamenti urtano spesso autori e critici. Poi ci si lamenta che troppo spesso i cinema rimangono mezzi vuoti.
È quel che si pensa a soppesare il verdetto della giuria, agli ordini di un presidente leggendario come Steven Spielberg e composta, tra gli altri, dal “collega” Ang Lee e da attori eccellenti come Christoph Waltz, Daniel Auteuil, Nicole Kidman… Come abbiano potuto laureare con la Palma d’oro come film migliore della rassegna il furbissimo La vie d’Adèle (sottotitolo misterioso: Capitolo 1 e 2) non ci è chiaro, pur dovendo registrare entusiasmi della critica e della stampa altrettanto sorprendenti. Il regista tunisino naturalizzato francese Abdellatif Kechiche è abile da sempre con la macchina da presa e con la direzione degli attori e in particolare delle attrici, come si vide in passato con La schivata e Cous Cous; e infatti le due protagoniste, l’esordiente Adèle Exarchopoulos e la già affermata Lèa Seydoux, si sono prese un’inconsueta Palma d’oro bis. Loro sono brave ed espressive, ma la storia della formazione sentimentale e sessuale della quindicenne Adele – seguita nel passaggio dall’adolescenza incasinata alla giovinezza ancora fragilissima – è piena di furbizie su cui pare nessuno voglia soffermarsi.
In un altro film, magari con amore etero e non lesbo trendy in una Francia in cui i matrimoni gay sono appena diventati legge (e guai a eccepire, men che meno in un festival internazionale: altrimenti, apriti cielo), si accetterebbero lunghi amplessi, ripetuti, di cui uno di almeno una decina di minuti in quasi tutte le varianti possibili tra due donne? Non bastava un accenno, a capire che si trattava di una grande passione? Di fronte a immagini sessuali esplicite e ripetute, si rimpiange spesso l’hollywoodiano Codice Hays: si chiudeva una porta e si capiva tutto. Adesso no, bisogna mostrare qualsiasi cosa. E va bene (si fa per dire), ma almeno il dono della sintesi. Che manca del tutto, anche nel resto del film, trattandosi di un romanzo di formazione (di pochi anni: lasciamo Adèle triste in un bar, dopo che la storia tra le due ragazze si è ormai conclusa da tempo, ancora giovane) di ben tre ore. Una durata da Titanic, Guerra e pace o La Bibbia… Insomma, magari alle due attrici la miglior interpretazione femminile in coppia poteva andare, ma la Palma d’oro ci sembra una concessione ai tempi più che ai meriti cinematografici. E vedremo in sala come andrà: certe provocazioni al buon gusto, da tempo, lasciano il tempo che trovano.
Anche gli altri premi segnalano sì film meritevoli, dimenticandone qualcuno, ma mescolando un po’ le carte in tavola. Se le due attrici francesi potevano al massimo essere considerate per il premio per le migliori interpreti, l’argentina anch’essa ormai francese Berenice Bejo (bravissima in The Artist) non era nelle previsioni, ma caso mai era tra i favoritissimi per la vittoria finale il suo film, l’intenso Le passé, primo lavoro in Francia per l’iraniano Ashgar Farhadi (vincitore dell’Oscar con Una separazione).
Altri titoli che potevano vincere la Palma d’oro hanno avuto posizioni di rincalzo: dai “secondi”, i fratelli Joel ed Ethan Coen, che hanno avuto il Gran Premio della Giuria con Inside Llewyn Davis per la loro storia su un musicista perdente e fuori posto (forse il film più applaudito al festival), al toccante film giapponese Like Father, Like Son di Hirokazu Koreeda (su due famiglie che scoprono che i loro figli sono stati scambiati in culla, una storia che ricorda il recente Il figlio dell’altra anche se con sviluppi diversi drammatici), che ha avuto “solo” il Premio della Giuria, fino a Nebraska di Alexander Payne che invece che un riconoscimento complessivo a una delle opere migliori in gara, o magari alla sua sceneggiatura, ha portato a casa il premio per il pur bravo attore, l’anziano Bruce Dern.
Il premio per la regia, poi, è andato all’immeritevole messicano Amat Escalante per Heli (un anno dopo il suo presuntuosissimo, connazionale Carlos Reygadas, stesso premio per l’orribile Post Tenebras Lux), un altro che scambia il cinema per una serie di provocazioni fini a se stesse (scena pulp: un gruppo di narcos dà fuoco ai genitali di un poliziotto…). E anche tra le sceneggiature, avremmo da eccepire che la migliore sia A touch of sin del pur bravo Jia Zhang-Ke, che eccede in brutalità per mostrarci la situazione violenta della Cina di oggi. Lo era appunto Nebraska, a nostro avviso, conferma delle qualità di scrittura (più forse che di regia) di un vero narratore come Alexander Payne, che non fa nulla di meglio di quanto non abbia fatto (Paradiso amaro era più intenso, Sideways più originale); ma la sua storia on the road di un padre e di un figlio (poi con mamma e fratello al seguito) ha divertito e intenerito parecchio il pubblico.
E poi ci sono gli esclusi, che sarà meglio ricordare proprio per dar conto di un festival che è stato meglio di quanto il suo palmarès non faccia pensare: se La grande bellezza di Paolo Sorrentino, pur con tanti limiti (è il film più confuso del regista napoletano, schiacciato da troppe cose da dire e dal non essere riuscito a equilibrare elementi narrativi e folla di personaggi), poteva ambire al premio alla regia per le qualità visive indiscusse del nostro autore, La Venus à la Fourrure di Roman Polanski non serve certo a confermare la sua maestria da regista (non ce n’è bisogno, dopo una lunghissima e gloriosa carriera), ma almeno doveva dare qualche chance ai due straordinari attori Emmanuelle Seignier e Mathieu Amalric, quest’ultimo molto bravo anche in Jimmy P., in coppia con Benicio Del Toro di Arnaud Desplechin. Ma tra gli attori si dava per certa la vittoria di Michael Douglas, nel biopic Behind the Candelabra di Steven Soderbergh di impronta televisiva (non è un’offesa: produce la tv via cavo HBO e negli Usa dovrebbe finire sul piccolo schermo prima che in sala), in cui è il cantante gay anni 60-70 Liberace.
E se The Immigrant di James Gray, con gli ottimi Joaquin Phoenix, Marion Cotillard e Jeremy Renner, è troppo classico per un festival moderno (ma a noi è piaciuto…), pare incredibile che un bel film come Un Château en Italie, film francese diretto dall’italiana Valeria Bruni Tedeschi (la sorella dell’ex première dame, Carlà in Sarkozy) che ha rallegrato ed emozionato gli spettatori con la sua storia molto autobiografica, non abbia raccattato nemmeno una segnalazione. Certo che se non ci si può fidare nemmeno di Steven Spielberg…