Termina il nostro viaggio in sei puntate nella stagione cinematografica appena conclusa (mentre sta per cominciarne una nuova): gli ultimi dieci titoli dei 50 film da recuperare – in dvd, nelle arene estive o in replica nei cinema “normali” – sono altre dieci sorprese e outsider, ovvero grandi film poco noti o film di peso, non perfetti ma con spunti interessanti.
Sorprese e outsider – Seconda parte
Cominciamo con un bel film tra action e poliziesco: End of Watch – Tolleranza zero, terzo film da regista per David Ayer, già sceneggiatore di Training Day e Fast and Furious che usa uno stile da reportage (c’è la solita videocamera usata per immortalare l’azione, in questo caso per documentare le azioni di un reparto di polizia) per raccontare chi sono Brian e Mike: due poliziotti tanto diversi (uno anglosassone e con tante donne, l’altro ispanico e fedelissimo alla moglie), quanto legati tra loro da sincera amicizia, che li spinge a frequentarsi anche nella vita privata. La loro professione li porta sempre alle soglie di pericoli mortali, tra gang di etnie rivali e traffici loschi su cui sarebbe meglio non prestare attenzione; ma loro lo sanno e mettono in conto i rischi del mestiere. Ma non sono agenti muscolari e spicci, bensì due ragazzi seri, coscienziosi, a volte simpaticamente sopra le righe, ma con la testa a posto. A volte eroi, sicuramente due uomini veri. E se Mike è un buon marito, anche Brian desidera in fondo una famiglia e una sicurezza affettiva, che trova poi in una ragazza che diventerà sua moglie. Ayer mette in scena un film di grande tensione emotiva e dal ritmo spesso frenetico nelle scene d’azione, intervallate da momenti più riflessivi, facendo emergere il senso del compito dei due poliziotti e la loro fraterna amicizia. E il rischio della retorica è smorzato da dialoghi ironici e gag irresistibili. Bravissimi i due protagonisti, Michael Peña e, soprattutto, Jake Gyllenhaal, per un poliziesco bello e inconsueto, tra i migliori degli ultimi anni.
Meno sorprendente, ma interessante e coinvolgente, è Blood, thriller di ambientazione britannica molto classico per impostazione e temi. Due fratelli poliziotti, figli di un capo della polizia ormai anziano e malato, molto diversi tra loro si trovano a che fare con un delitto cruento, che scatena il desiderio di vendetta di uno dei due. Mentre un collega, più razionale, inizia a sospettare. I fatti li travolgeranno, in modi diversi. Stile, scrittura e soprattutto attori sono di prim’ordine (su tutti Paul Bettany e Mark Strong, eccellenti), ma qualche problema di sceneggiatura impedisce al film di superare il livello di un decoroso prodotto di cui rimane più impressa l’atmosfera e il contesto che la storia e i meccanismi del giallo.
Sempre dalla Gran Bretagna arriva la spy storyDoppio gioco, con Clive Owen nei panni di un agente dei servizi segreti che incastra una donna del gruppo terroristico irlandese dell’Ira (siamo a inizio anni ‘90, ancora lontani dalla pace di fine decennio) e la costringe a rivelare informazioni sul gruppo. Lei, Colette, ha un passato tragico (si sente in colpa per la morte del fratellino) e la lotta armata, insieme a due fratelli, è una vendetta contro gli inglesi. Collaborare con loro non le piace, ma pur costretta dall’agente Mac (un ottimo Clive Owen) ne intravvede la possibilità di non far spargere altro sangue. E forse quel Mac non le è insensibile. Ma nell’Irlanda del 1993 la pace è ancora un’utopia. E i segreti del passato sono destinati a riemergere. Un film sobrio, dallo stile quasi dimesso (grazie a una fotografia che gioca sui colori grigi, degli interni e dei paesaggi, con qualche contrasto forte accentuato a dovere) e teso, che restituisce bene un tempo tragico per l’Irlanda del Nord. Soprattutto, in cui le motivazioni personali e le psicologie hanno la meglio sull’azione.
Azione invece molto presente in The Last Stand – L’ultima sfida, con un redivivo Arnold Schwarzenegger. Ma in cui non manca il sentimento. Questo “piccolo” film, tra action e western, diretto negli Usa dal coreano Jee-won Kim, vede Schwarzy interpretare uno sceriffo di una cittadina dell’Arizona, attraverso cui deve passare un narcotrafficante in fuga. I federali dell’FBI si mobilitano, ma lo sceriffo vuol fare da sé, o meglio insieme alla sua squadra, apparentemente squinternata, cui è molto legato. Anziano ma tosto, venderà cara la pelle. Ironico (per esempio, sull’età del protagonista) e movimentato, divertente ed emozionante, il film a un certo punto prende di sorpresa e commuove perfino (in una scena che è bene non svelare), rivelando più profondità di quanto non si direbbe. E mostrando la pasta del protagonista e la lealtà rispetto ai suoi uomini (e donne). Un insuccesso commerciale, visto da pochi in Italia, ma da recuperare.
È invece un “piccolo disaster movie”, se si può dire, The Grey di Joe Carnahan, regista di cui dieci anni fa si diceva un gran bene prima che si mettesse in urto con potentissime star. L’operaio Ottway, interpretato da un gigantesco (in tutti i sensi) Liam Neeson, lavora per una compagnia petrolifera: insieme ai suoi compagni di lavoro, precipita con l’aereo in Alaska; pochi sopravvivono, e in quelle lande disabitate e in condizioni proibitive è dura resistere. Soprattutto quando famelici lupi si avvicinano minacciosi… Il tema della natura ostile, gli echi di romanzi antichi come quelli di Jack London, le paure primordiali in un film dal sapore epico: realistico ma anche lirico nell’evocare un dolore incancellabile del protagonista e in rapporto con una morte temuta e incombente, The Grey è un’altra sorpresa della stagione: uno di quei film “antichi” che oggi Hollywood riesce ancora a fare, ma stranamente non sa più “vendere”. Tanto che bisogna andarseli a cercare quasi da soli.
Sempre una natura selvaggia, ma per un film completamente diverso è Re della terra selvaggia di Ben Zeitlin, rivelazione americana dell’anno agli Oscar (con quattro nomination), ma anche a Cannes un anno fa e poi al Sundance: in una piccola comunità della Louisiana, ai margini della civiltà moderna, si consuma il dramma della piccola Hushpuppy alle prese con un padre alcolizzato e malato. Opera difficile da catalogare, che ha i suoi punti di forza nella piccola Quvenzhané Wallis, la più giovane candidata all’Oscar della storia, che a sette anni all’epoca delle riprese (ora ne ha quasi dieci) tiene su il film quasi da sola. Ma affascina anche la descrizione di quel mondo, poverissimo, precario (tra paludi malsane e palafitte pericolanti) e però anche magico, in cui la piccola Hushpuppy vive la realtà trasfigurata dalla sua fantasia. Trovando la forza per cercare una madre che non vede da anni. E per sperare sempre, nonostante tutto.
Infine, quattro film completamente diversi tra loro. Il primo è un film di animazione francese delicato e ideale per bambini anche piccoli, ma apprezzabile anche dai genitori: Ernest & Celestine, che racconta l’impossibile amicizia tra un orso solitario e amante della musica e una topolina che vive in un orfanotrofio. Ispirato alla seria omonima della disegnatrice belga Gabrielle Vincent, il film è firmato dal celebre scrittore Daniel Pennac, che per la prima volta ha scritto la sceneggiatura di un cartoon. I due animali, che dovrebbero essere nemici, si trovano per circostanze imprevedibili a solidarizzare reciprocamente. Forse il più bel film di animazione dell’anno, caratterizzato da un tratto di disegno delicatissimo e in sintonia con la poesia della storia.
Nello stesso genere, con stile diversissimo, un film di animazione americano ma rivolto a ragazzi e a cinefili “grandi”: Frankenweenie di Tim Burton, che riprende un suo vecchio corto giovanile per questo film in bianco e nero. Con la tecnica dello stop motion, Burton riprende la storia diFrankenstein riadattata. Si chiama proprio Victor Frankenstein un ragazzino che vive con i genitori in una piccola cittadina. Introverso e solitario, Victor ha due passioni, il suo cane Sparky e gli esperimenti. Quando Sparky muore, Victor cerca di riportarlo in vita. Pieno di citazioni, ma emotivamente intenso, cupo e venato di grande malinconia ma anche di grande dolcezza,Frankenweenie è un racconto di formazione come in fondo il regista di Edward mani di forbice ha spesso realizzato.
Disagi adolescenziali sono al centro anche di Noi siamo infinito, che racconta l’amicizia tra tre ragazzi liceali di inizio anni ‘90. Dal romanzo “Ragazzo da parete” di Stephen Chbosky, che ha adattato e diretto anche la versione cinematografica, il film prende il punto di osservazione del timido Charlie, segnato da un grande dolore. Tra tanti problemi, trova al liceo due amici e un insegnante che lo aiutano a inserirsi. Bravissimi i tre interpreti, soprattutto Emma Watson, ormai lontana dal ruolo di Hermione in Harry Potter (ma si vedeva già in quei film il suo talento), ma colpisce anche la tenerezza con cui il regista guarda questi ragazzi, le loro debolezze, anche affettive, e il loro desiderio grande, davvero infinito (che bello quando l’amica gli dice: “Non voglio essere la ‘cotta’ di nessuno, io voglio essere amata”). Non un film perfetto, anzi, ma molto sincero.
Infine, una delle grandi sorprese dell’anno: No – I giorni dell’arcobaleno del regista cileno Pablo Larrain. Che rievoca una pagina cruciale della storia recente della sua nazione, ovvero il referendum del 1988 sulla permanenza al potere del generale Pinochet per altri otto anni. Voluto dallo stesso Pinochet, su pressione di Stati Uniti e altri paesi, per dare una parvenza di democrazia alla sua dittatura, il referendum era sbilanciato a suo favore. Gli oppositori avevano a disposizione solo 15 minuti in seconda serata sulla tv nazionale: come convincere i concittadini a votare no alla richiesta del dittatore, mandandolo via? Con appelli drammatici e retorici? Per René Saavedra, giovane pubblicitario assoldato dalle forze anti Pinochet (socialisti, comunisti, democristiani), la campagna deve essere invece allegra, colorata, trascinante… Idea quasi scandalosa, ma forse non assurda… Con uno stile a tratti semidocumentario, per rendere l’aria del tempo (e anche i suoi spot molto naif…), No riesce a raccontare una pagina di storia, di liberazione e di coraggio. In cui si evidenzia come il bisogno di verità e di libertà sia insopprimibile. Ma anche che i modi per arrivarci, in questo caso con un’allegria che spazza 15 anni di violenza, non sono affatto secondari.
(6 – fine)