Passano gli anni, cambiano le giurie, ma i criteri per i premi ai festival – salvo rare e valorose eccezioni – si confermano deludenti. Anche la 71ma Mostra di Venezia, che si è conclusa sabato 6 settembre, ha puntato più che sui meriti assoluti su una chiave soggettiva: in genere è quella di premiare non i migliori film ma quelli che potrebbero giovarsi del premio in termini promozionali; ovvero, tra un grande regista già affermato che ha potuto contare su attori popolari e un regista emergente o sconosciuto alle grandi platee (ma ormai i registi dei festival sono tutti poco noti, a parte ai cinefili più informati: chiedere agli amici chi siano Inarritu o Cuaron…) con attori ancor più ignoti, meglio ovviamente il secondo.
È proprio questo il motivo per cui da Hollywood tendono a evitare da qualche tempo le gare di Cannes, Venezia, Berlino o Locarno: se due anni fa – e sì che il presidente di giuria era il grande Michael Mann – The Master di Paul Thomas Anderson aveva dovuto cedere il Leone d’oro a Pietà di Kim-Ki Duk (che era famoso tra i cinefili, ma non ha conquistato uno spettatore in sala al di fuori di essi), è chiaro che Anderson quest’anno non lo abbiamo rivisto con il suo nuovo film; ma sarebbero da citare anche casi ancora più clamorosi in passato.
Altra chiave, aggiuntiva, è quella della valenza politica: sempre sottintesa, stavolta è stata addirittura esplicitata dal presidente di giuria, il compositore di colonne sonore Alexander Desplat (che ha lavorato con tutti i grandi del cinema), che accanto a sé aveva tra gli altri il grande attore Tim Roth e l’italiano Carlo Verdone. In realtà, a ragionare sui titoli premiati, la politica non c’entra sempre se non in senso lato. Ma il risultato è lo stesso: i migliori, se vengono da Hollywood, non vincono.
Quest’anno i film più apprezzati a Venezia sono stati due: quello di apertura, Birdman del messicano Alejandro Inarritu (storia divertente e intelligente di un attore che divenne celebre come supereroe in una serie di film e ora cerca di rilanciarsi con il teatro) prodotto a Hollywood; per la prima volta Inarritu, che rilancia Michael Keaton (ex Batman oltre vent’anni fa) e lo affianca a un sontuoso cast, lascia i toni angoscianti dei vari Amores perros, 21 grammi, Babel e Biutiful e realizza un film che aveva messo d’accordo critica e pubblico. Forse non un capolavoro, ma un ottimo film. Ovviamente rimasto a mani vuote.
Il film che ha aveva invece più emozionato era stato il documentario The Look of Silence dell’americano Joshua Oppenheimer sul massacro dei comunisti da parte della dittatura militare nell’Indonesia di metà anni ‘60, ma forse dopo il sopravvalutato Sacro GRA non si è voluto assegnare a due documentari di fila il Leone d’oro; comunque Oppehneimer, che aveva già sondato il tema nel precedente The Act of Killing, candidato all’Oscar, è finito sul podio con il Gran Premio della Giuria. Ma i primi due posti sono stati concessi con troppa generosità allo svedese A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (praticamente “Un piccione siede su una panchina riflettendo sull’esistenza”) di Joy Andersson, vincitore del Leone d’oro, e a The Postman’s White Night di Andrej Konchalovskij che ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia a oltre cinquant’anni dal suo premio veneziano con un cortometraggio. Due titoli che potevano aspirare a qualche premio, non ai due massimi riconoscimenti di un grande festival internazionale. Non immaginiamo per loro un grande futuro nei cinema.
Sono due film non senza qualità, ma caratterizzati da un’eccessiva lentezza che ormai contraddistingue tali rassegne, tanto da creare la perniciosa categoria dei “film da festival”. Il “piccione” di Andersson, che pure è un maestro di stile e nel mettere in scena le sequenze come fossero singoli quadri (il premio alla regia poteva avere un senso, il primo premio è esagerato), è una divertita, a tratti divertente ma cinica opera, con tutti i tic e i vezzi del cinema d’autore, in cui la morte irrompe in scena grottescamente e i vivi hanno il viso imbiancato di chi in fondo sta già per morire…
Umorismo invece surreale quello di Konchalovskij che ci fa vedere le vane peregrinazioni di un postino in Russia, tra lande semidesolate nel nord del Paese, dove la vodka è compagna fedele che annebbia parole e ragionamenti (un personaggio mezzo matto mormora due volte una bestemmia, sempre che non sia una “licenza” di chi ha realizzato i sottotitoli), ma dove si cerca di preservare umanità e solidarietà, dove i sentimenti non riescono a emergere anche quando sono chiari e l’angoscia prende spesso il sopravvento. Soprattutto, un film dove succede pochissimo come in troppi film del concorso di quest’anno.
È il caso, per esempio, dell’opera prima Sivas del turco Kaan Müjedci, non priva di alcuni pregi formali e narrativi (con un bambino molto espressivo), ma anche gravata da momenti di stanca oltre tutto intervallati da violentissimi combattimenti tra cani che costringevano parecchi a coprirsi gli occhi; un film d’esordio che è stato omaggiato con il Premio speciale della Giuria… Molto meglio due film premiati con i riconoscimenti minori, il film a episodi Ghessea (Tales) dell’iraniana Rakhshan Bani-Etemad, Osella per la sceneggiatura, e il francese Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte, premio Marcello Mastroianni per il miglior attor emergente, il giovanissimo Romain Paul.
Le Coppe Volpi per i migliori attori sono andate invece ai protagonisti di uno dei tre film italiani: Alba Rohrwacher e l’americano Adam Driver (che sarà nel prossimo episodio della saga di Star Wars) per Hugry Hearts di Saverio Costanzo; un film durissimo e toccante, forse con un finale non del tutto convincente, su una coppia che va in pezzi per le fobie della madre vegana dopo la nascita del figlio. E i due protagonisti sono davvero intensissimi. Molto apprezzati anche gli altri due italiani, il noir tragico Anime nere di Francesco Munzi, storia di faide familiari nella Calabria di oggi, e Il giovane favoloso di Mario Martone su Giacomo Leopardi, opera non compatta (ottimo inizio, seconda parte meno convincente), con un ottimo Elio Germano nei panni del poeta o meglio del filosofo Leopardi, con una scelta forse discutibile di concentrarsi soprattutto sull’uomo di pensiero. Ed erano di buon livello anche altri film italiani nelle altre sezioni, come I nostri ragazzidi Ivano De Matteo.
Pessimo invece Pasolini di Abel Ferrara, coproduzione internazionale con partecipazione anche italiana, con miscuglio di italiano e inglese, un Willem Dafoe che si cala con zelo nei panni di Pier Paolo Pasolini e una narrazione confusa, torbida e pasticciata che non rende onore al grande poeta, personaggio certo contraddittorio ma di cui non emerge la grandezza ma solo la preveggenza e la fragilità. Basterebbe rivedere un documento d’archivio e sentire parlare il vero Pasolini per essere sorpresi dalla profondità di pensiero; quello di Ferrara (regista dal grande passato ma dall’oscuro presente, sperando abbia almeno chiuso definitivamente con la droga) è solo un bigino, pure molto parziale. Che si concentra sulle ultime ore della sua vita, tra ultime interviste, ultimi incontri, ultime idee sul romanzo “Petrolio” e uno sconclusionato film fanta-porno-religioso (con scena più trash che volgare) e uccisione sul lido di Ostia. Altre delusioni, The Cut di Fatih Akin, Manglehorn di David Gordojn Green con Al Pacino e soprattutto Nobi del giapponese Shinya Tsukamoto, che conferma che certi registi abituati a essere idolatrati da cinefili fanatici si convincono di poter girare qualsiasi cosa (nella fattispecie, scene di guerra che più splatter che toccanti).
Tra i film rimasti a mani vuote da Venezia (in un’edizione di buon livello medio ma certo non indimenticabile) che sarebbe bello poter vedere in Italia, segnaliamo invece il francese Loin des Hommes con un ottimo Viggo Mortensen nell’Algeria pre-guerra con la Francia, il cinese Red Amnesia (pur con qualche autorialismo di troppo) che riapre la dolorosa pagina delle delazioni nella Cina maoista e l’americano Good Kill di Andrew Niccol, fischiato per motivi puramente politici (a chi non ha neppure capito che è un film critico sulla politica Usa degli ultimi 15 anni), su un pilota che “telecomanda” i droni in Afghanistan comodamente da una base in Nevada. Il personaggio interpretato da Ethan Hawke bombarda il nemico da una postazione lontana e senza pericoli, come se fosse un videogioco con tanto di joystick, eppure non può evitare – a differenza di altri colleghi – sensi di colpa e turbamenti. Un film che mostra aspetti della guerra mai rappresentati prima, senza facili prese di posizione (c’è il dilemma tra l’opportunità di eliminare assassini sanguinari che minacciano attentati agli Usa e il dolore di uccidere anche innocenti), terribilmente attuale in alcune battute (“Al Pentagono non ne possono più di vedere marines attaccare l’America prima di essere decapitati”) e con un pregio raro a un festival: si segue con interesse dall’inizio alla fine, senza un filo di noia. Non dovrebbe essere sempre così, il cinema?