L’intento evidente e dichiarato di Bullet Train è fuori tempo massimo, non solo perché il romanzo da cui è tratto (I sette killer dello Shinkansen) è stato un grande successo dieci anni fa ma non ha lasciato troppe tracce o ricordi, ma soprattutto perché il romanzo stesso si poneva sulla scia di quel cinema post-Tarantino che aveva già detto tutto (e non era poi tanto), alla fine dello scorso millennio, spegnendosi in imitazioni con poco nerbo mentre il prototipo andava avanti e girava film sempre ricchi di idee e invenzioni.
Il film diretto da David Leitch, noto per aver contribuito al successo di John Wick come stuntman e di Atomica bionda come regista, racconta di un gruppo di feroci killer radunati su un treno proiettile giapponese senza apparenti legami gli uni agli altri. Stazione dopo stazione, però, i loro obiettivi si incrociano e scontrano, tra il figlio di un boss da proteggere o eliminare e una valigetta piena di denaro: chi sopravviverà nel tragitto da Kyoto a Tokyo?
Zak Olkewicz adatta il romanzo di Kōtarō Isaka rendendo i killer quasi tutti americani per poter permettere a Brad Pitt, che scherza sulla sua difficoltà medica a riconoscere i volti delle persone, e Sandra Bullock (quasi sempre in voce, appare nel finale) di essere i protagonisti del film, saccheggia a destra e manca da Pulp Fiction, Kill Bill, Le iene e punta tutto al super-giocattolo coloratissmo e frivolo, nel bene e nel male.
Tutto in Bullet Train rimanda alla maniera del regista di Knoxville, i dialoghi eccentrici e continuati, il cinismo ironico con cui si affronta la morte e le azioni, la struttura a episodi e blocchi continuamente complicata da digressioni e salti indietro in cui ogni vagone è un segmento e ogni segmento è una missione, un tono diverso; a questo Leitch aggiunge il suo senso per l’azione parossistica e il corpo a corpo, la volontà di adattare certi elementi della cultura orientale, sia in senso fisico sia estetico o filosofico, al carrozzone action hollywoodiano, al luna park sensoriale di luci, colori, inquadrature rapidissime.
Il punto è che tutto livellato al gioco, tanto storia e personaggi e va da sé (sebbene è un modo per tradire e fraintendere l’ispirazione tarantiniana), quanto l’azione, il movimento, la violenza, la tensione e lo spettacolo; così a furia di giocare e scherzare, senza prendere nulla sul serio nemmeno il meccanismo stesso, nemmeno il divertimento che vorrebbe garantire, il film si sgonfia e si trascina nelle ripetizioni. Per cui risulta a suo modo un colpo riuscito il gran finale, in cui tutto assume una vera dimensione cartoonesca, in cui il digitale porta Bullet Train sopra ogni riga dando coerenza alla vena ludica di tutto il film.
Nonostante il coordinamento stunt e la regia della seconda unità di Greg Rementer, sodale del regista, Leitch non riesce a fare emergere il senso dell’azione che giace sul fondo dello script, forse perché questo tipo di racconto e questo modo di narrarlo non hanno a che fare con corpi e azioni, ma con tensione sottile, dialoghi, confronti quasi immobili che deflagrano all’improvviso. Tra Kill Bill e Die Hard c’è una differenza profondissima che Leitch e il film da lui diretto non hanno affatto colto.
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