Due manciate di fieno dentro un fagotto di stracci. Altro che sfera di cuoio, magari firmata. Il primo pallone fu quella cosa lì: non proprio rotonda, non proprio perfetta, ma bastò prenderla a calci sul campetto spelacchiato dietro casa per farlo innamorare.

Tarcisio Burgnich da Ruda, un grumo di case nella pianura friulana che appena vent’anni prima aveva conosciuto le conseguenze dello sbandamento di Caporetto e che solo un anno dopo avrebbe vissuto le illusioni di una nuova guerra. Gente temprata ad una fatica che noi riusciamo appena ad immaginare. E poi la “solita” storia dell’Italia contadina: campi da arare, vacche da mungere, figli – tanti – da tirare grandi.



Il più grande numero 2 nella storia del calcio italiano, terzino destro, stopper, libero al quale toccava immancabilmente, qualsiasi fosse la partita, il più attaccante avversario. Che bloccato da una tecnica forse non sopraffina, ma di sicuro efficace, trovava pane per i propri denti. 4 scudetti, 2 coppe campioni, 2 coppe intercontinentali, un campionato europeo (1968: l’unico della Nazionale), il goal indimenticabile che all’ottavo minuto del primo tempo supplementare regalò all’Italia il pareggio contro la Germania Ovest ai Mondiali messicani del ’70, prima della rete di Rivera che ci portò in finale col Brasile.



“La roccia”, lo soprannominò un altro grande del nostro calcio, Armando Picchi, di cui proprio oggi ricorrono i cinquant’anni dalla morte. Ma l’altro ieri anche “la roccia” ha finito, ad 82 anni, con lo sgretolarsi sotto i colpi inesorabili della malattia. Con Tarcisio (nome elegante e rude al tempo stesso, che sa di coraggio e di tragedia greca e che bene si addiceva al suo sguardo intenso) se ne va un altro pezzo da novanta non solo nella storia del “gioco più bello del mondo”, ma nella storia tout court dell’Italia. Di quando, bene inteso, l’attaccamento ai colori sociali valeva più della sete di guadagno.



A proposito: mentre si diffondeva la notizia della morte, i giornali davano ben altro risalto a una seconda news: Antonio Conte lasciava l’Inter, proprio la squadra in cui Burgnich aveva vinto di più. Nell’anno in cui la formazione milanese è tornata a vincere lo scudetto (l’ultimo, il diciottesimo, ben undici anni prima) e a partire in pole position nella prossima Champion, insomma a pochi giorni dal massimo trionfo, il suo allenatore se ne va.

Incredibile ai tempi di Tarcisio, normale al tempo di Antonio. All’Inter aveva un ingaggio da 13,5 milioni di euro, con la rescissione del contratto dodici mesi prima del previsto ne incassa 7 (ma che contratto è quello in cui, se sei tu ad andartene e non la società che lo tronca, hai diritto a tale gigantesca buonuscita?). Se ne va da un’altra parte, probabilmente all’estero dove lo pagheranno il doppio che all’Inter.

No, i moralismi non c’entrano, i piagnistei nemmeno. Ma due notizie così, a poche ore di distanza l’una dall’altra, non possono che suscitare un confronto tra il calcio che fu (lo sport in genere) e il calcio (lo sport) che è. Tra una disciplina che era anzitutto passione e un’altra che ha lo stesso nome, ma un’anima diversa. Anni fa intervistai un altro grande vecchio, Alfredo Binda, 5 volte campione del mondo in bicicletta. Alla domanda, un po’ ingenua, del giovane cronista, “cosa ne pensa del ciclismo di oggi?”, mi guardò negli occhi con un senso di smarrimento: “Cosa vuole che pensi… non penso niente”.

Già, troppo difficile, troppo doloroso il confronto. Tutto si evolve, tutto cambia, com’è naturale che sia, è legge di natura. Non è detto, però, che tutto cambi sempre in meglio. Vale per tanti ambiti diversi, vale anche per lo sport. “Sarti, Burgnich, Facchetti…”: le radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto iniziavano sempre così, negli anni Sessanta del boom economico: con la formazione dell’Internazionale allenata da Helenio Herrera e finanziata da Angelo Moratti. Mitica, quella formazione, anche per me che ero (e sono) juventino.

Perché davanti ai campioni veri, in campo e fuori (Tarcisio parlava pochissimo, sapeva tacere e lavorare sodo), le bandiere non contano. E nemmeno i soldi. Conta di più un semplice pallone, se possibile di cuoio, altrimenti va bene anche di stracci e fieno, purché si lasci prendere a calci.

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