L’Unione Europea ci invita nuovamente a riformare la pubblica amministrazione; è più o meno generale e risalente il refrain di “eccesso di burocrazia” cui fa da controcanto l’invocazione alla “semplificazione”.

È curioso constatare come in tutti discorsi sulla riforma anche strutturale della pubblica amministrazione, anche in quelli degli addetti ai lavori (sempre gli stessi ab immemorabile) sia piuttosto carente la diagnosi, che si risolve in generale nell’additare la resistenza burocratica. La “burocrazia” rimane silente, ma la denuncia, un po’ come l’evocazione dei “poteri forti”, consente alla “politica” una sorta di scaricabarile per presentarsi non come parte del problema, bensì come parte della soluzione. Ma non è così.



Qui di seguito tre ragioni per le quali la politica non può chiamarsi fuori.

La prima ragione è la banale constatazione che lo strumento utilizzato per riforma è la legge e che la legge è un potere condiviso tra Governo e Parlamento e, quindi, politico. Magari della maggioranza piuttosto che dell’opposizione, ma nell’arco dei cinquant’anni di tentate riforme, un po’ tutti hanno avuto modo di mettersi alla prova. Dagli anni 70, a partire dalla riforma della dirigenza amministrativa del 1972 (Andreotti), le leggi di riforma si susseguono e si inseguono, dapprima con cadenza decennale, poi con ulteriore accelerazione dopo gli anni 90. Il flusso continuo di norme modifica, integra, sostituisce, interpreta le norme precedenti e anche quando le abroga crea lacune che generano ulteriori incertezze.



A partire dagli anni 90, la “novellazione legislativa” ha prodotto una destrutturazione permanente del quadro normativo. La fibrillazione amplia i margini di interpretazione, mina la certezza del diritto e l’amministrazione, nel dubbio si trincera nell’inerzia, producendo essa stessa a getto continuo circolari e direttive. Un labirinto in continuo movimento che getta i cittadini in uno stato confusionale e dal quale non sono in grado di tirarsi fuori da soli. Più aumenta la frequenza e la densità normativa, più cresce la complicazione dell’azione amministrativa.

Dopo la modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001, la disseminazione dei poteri legislativi, regolamentari e amministrativi tra Stato Regioni e Comuni, l’alluvione normativa ha raggiunto l’acme.



La politica sembra animata invece da una coazione a ripetere. Di fronte alla perdita di efficienza, si fa sempre una nuova legge, occasionata magari dal cambio di maggioranza e volta a rimediare agli errori del governo precedente (Brunetta 2006; Madia 2016). L’overdose legislativa però fa perdere altri colpi alla macchina amministrativa che, a differenza delle vere macchine, non può essere fermata per un tagliando. Il motore deve continuare a girare e la revisione in movimento, lo inceppa.

La seconda ragione per cui la politica non può chiamarsi fuori è conseguenza della prima. La perdita di efficienza e la complicazione generano un loop ricorsivo. Un equilibrio sistemico negativo che nel 2003, in un libro sulle dinamiche istituzionali del diritto dell’economia, avevo già definito “catastrofico”.

La complicazione rende defatigante e disperante il rapporto dei cittadini con l’amministrazione pubblica. Ci si guarda intorno alla ricerca di qualcuno che possa dare soccorso. In prima fila nell’intermediazione i cittadini trovano proprio i politici, che svolgono il ruolo di primi intermediari. Il potere politico orienta ed influenza l’amministrazione costituendone il vertice: può intercedere. Allora ci si raccomanda per sollecitare la pratica amministrativa e facilitarne l’esito positivo. Avviene uno scambio. Tralasciando la patologia, lo scambio consiste in una raccomandazione in cambio di consenso politico, di una fidelizzazione personale, di un legame clientelare.

L’intermediazione politica dunque si presenta come soluzione del problema: anche se non recupera credibilità, la politica – in questi scambi – sicuramente acquisisce potere. In questa prospettiva non è interesse della politica rimuovere il malfunzionamento dell’amministrazione che genera e conferma il suo potere.

La politica non è però sola nella funzione di intermediazione. Associazioni, sindacati, enti associativi di rappresentanza, organismi con varie sigle curano le più disparate pratiche amministrative. Lo scambio in questi casi è: tempo risparmiato e mancanza di expertise del cittadino in cambio di una prestazione professionale. Normalmente gli intermediari fanno bene il loro lavoro. Ma la complicazione amministrativa ne costituisce il presupposto dell’attività. Un esempio di qualche giorno fa. Volete farvi da solo la pratica Inps per la Cig in deroga? Provate pure. Il sistema va in tilt. Che fare? Bisogna diminuire il carico telematico. Si consente allora la connessione diretta dei cittadini solo dopo le cinque del pomeriggio. Rischiare l’estenuante ingorgo telematico? Meglio rivolgersi agli enti, organismi e categorie professionali che hanno accesso riservato durante l’orario degli uffici e curano cumulativamente l’evasione delle pratiche, riducendone i costi.

Proviamo a tirare una qualche conclusione su questi due primi punti. Siamo all’interno di un circolo vizioso. a) L’inefficienza dell’amministrazione pubblica genera una reazione legislativa da parte della politica che finisce solo per incrementarla. b) La complicazione normativa genera a sua volta domanda di intermediazione, sia politica sia di expertise professionale e tecnica. Entrambe queste forme di intermediazione, in questo contesto, non sono percepite dai cittadini come parte del problema bensì come sua soluzione. Uno stallo, in cui nessuna delle parti in gioco ha interesse ad uscirne ridimensionando il proprio ruolo.

L’interesse a rompere questo equilibrio, invece, sarebbe di “tutti” e di “ognuno”, per parafrasare la Costituzione. Concretamente di nessuno. In termini sociologici si tratta di un interesse generale che però è privo, come si dice in gergo sociologico, di “portatore”.

Al centro di questo equilibrio, in posizione statica, come motore immobile, si colloca la burocrazia, indicata – per la sua resistenza al cambiamento – come fattore critico per eccellenza.

Un atteggiamento difensivo, verrebbe da dire. Se guardiamo infatti la sua relazione con il potere politico, possiamo dire che la linea costantemente perseguita da quest’ultimo è stata quella di un suo ridimensionamento, iniziato da Andreotti nel 1972 con la riforma della dirigenza statale mediante un prepensionamento epocale e la sua sostituzione con un nuovo più flessibile ceto burocratico. Nel 1983 la legge quadro sul pubblico impiego prevede l’eliminazione della carriera direttiva, dando potere ai sindacati confederali e rendendo la nomina della dirigenza più fiduciaria e più disponibile all’influenza della politica con crescente immissione nei quadri apicali di direttori generali, segretari generali e capi di dipartimento non provenienti dalla carriera interna.

Tant’è che alla fine degli anni 80 si ebbe il buon gusto di porre fine alla consuetudine di indicare nel comunicato finale del Consiglio dei ministri i nominativi e i cv dei nuovi direttori generali.

Si può dire, senza tema di smentite, che gli anni 70 e 80 sono caratterizzati da un’espansione del potere politico a scapito di quello burocratico mentre quest’ultimo subiva una metamorfosi, politicizzandosi, in modo da essere sempre più accetto dal primo. Linea di tendenza confermata, anzi accentuatasi negli anni 90, ma con una variante dovuta alla crisi che investe la politica dei primi anni 90, additata come responsabile della mala gestione amministrativa con Tangentopoli.

Per reazione, il potere politico tende ad occultarsi dietro la distinzione tra l’“indirizzo politico”, che spetta alla politica formulare, e la “gestione”, che è invece di competenza del dirigente statale, al quale il decreto legislativo 29/1993 attribuisce “la responsabilità della adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno”. Insomma, la politica sembra fare un passo indietro, tirandosi fuori dalla responsabilità diretta.

Inizialmente circoscritta all’attività del governo, all’eliminazione della classica responsabilità ministeriale, la separazione tra indirizzo politico e gestione piace un po’ a tutta la politica. Non so se deve essere sembrato ingiusto riservarla alla sola caducazione della responsabilità ministeriale. Sta di fatto che il nuovo modulo si estende, nel 2001, con il novellato Titolo V della Costituzione che consacra la pari dignità di tutti gli organi politici elettivi della Repubblica, a Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni. Una specie di immunità dalla responsabilità amministrativa. I vertici politici delle amministrazioni pubbliche formulano solo “indirizzi”, mentre i responsabili delle decisioni sono invece i dirigenti che sono preposti alla gestione.

Questi ultimi però spesso recalcitrano. Difficile dar loro torto. Bisogna pertanto tenerli in riga. L’adozione della formula “comanda e controlla” ha provocato l’elefantiasi organizzativa e l’iper-procedimentalizzazione. L’indirizzo degli organi politici è pervasivo. Si esercita con procedure complesse, mutevoli, e riti ricorsivi sulla cui base si innesta un sistema di monitoraggio e controlli interni sull’attività, sui risultati, sugli atti dei dirigenti, i quali ultimi passano gran parte del loro tempo a stilare report, compilare questionari, stendere relazioni sul loro operato dando conto della rispondenza all’indirizzo loro impartito. Un profluvio di carte report affidati a controllori interni ed esterni che dicono anch’essi la loro sulla verifica o meno del rispetto dell’indirizzo politico.

All’elefantiasi procedimentale si accompagna quella organizzativa interna. La separazione tra politica e gestione ha duplicato l’amministrazione affiancandole una para-amministrazione interna, cosiddetta di staff o di missione, che fiancheggia la dirigenza accompagnandone costantemente l’operato e riferendo a chi di dovere. Tra indirizzi e direttive, istruzioni e controlli, report e misurazioni varie di produttività (ovviamente cartacee), la gestione procede a scartamento ridotto con uno sguardo introflesso volto verso l’alto alla contemplazione del potere politico e attento alle sue volizioni anche umorali. Recede, in questa prospettiva subordinata, la cura della gestione amministrativa al suo impatto “verso l’esterno” cioè i cittadini.

Presa in mezzo tra la responsabilità verso la politica e verso i cittadini, che si innesca con la firma degli atti amministrativi, la dirigenza tende alla paralisi allorquando le due responsabilità entrano in conflitto. Priva dell’immunità di cui gode la politica, la dirigenza sovente si impunta – come è facile immaginare – nell’assumere decisioni che diano attuazione non tanto all’evanescente indirizzo politico formalizzato, quanto piuttosto a quello sotteso ed informale che preme ai vertici realizzare ma sul quale non vogliono o non possono esporsi.

La “fiduciarietà” del rapporto con la politica, la “privatizzazione” del rapporto di lavoro, la “rotazione” e la “precarietà” dell’incarico dirigenziale, non sempre costituiscono un efficace deterrente alla lentocrazia. Nonostante si sia cercato di rendere ancora più flessibile il rapporto di dipendenza dei dirigenti anche dei gradi minori con la nomina di persone esterne all’amministrazione e con i contratti a termine (d.lgs. 165/2001) i risultati sono stati scarsi. Anche perché la dirigenza amministrativa, nella svolta degli anni 2000, a seguito del riconoscimento, da parte della Corte di Cassazione, della risarcibilità dell’interesse legittimo, fino allora esclusa, si è venuta a trovare sotto tiro. Se l’amministrazione pubblica viene condannata al risarcimento per i danni subiti da un cittadino, la Corte dei Conti è tenuta ad agire con un’azione di rivalsa contro il dirigente che con il suo provvedimento ha provocato il danno, escutendo, se del caso, il suo patrimonio personale.

Lo stallo procedurale e decisionale si è perciò accentuato negli anni 2000. La dirigenza è esposta ad un fuoco incrociato e la politica non sembra intenzionata ad abbandonare l’acquisita immunità amministrativa. Del resto sarebbe quasi autolesionismo. Anche La Corte Costituzionale ha avuto modo di rimarcare come la politica in questo modo eviti di mostrare il proprio volto di potere. Ma tant’è: non si cambia. La “burocrazia”, entità proteiforme ed evanescente, subordinata e silente, continua a fungere bene da simbolico capro espiatorio, ma recalcitra nell’assumerlo in concreto. Al di sotto delle formule magiche della “razionalizzazione”, della “semplificazione” e della “riforma” ora anche “strutturale” e alle chiacchiere di circostanza che le illustrano e le accompagnano, giace irrisolto, anche nel suo versante interno, l’equilibrio catastrofico dell’inefficienza amministrativa.

Se questa è grosso modo la diagnosi, nel prossimo intervento la prognosi. Vedremo su cosa fare leva e quali sono le possibili ricette per cercare di evitare che la macchina amministrativa, collassando ulteriormente, comprometta la ripartenza civile ed economica del paese post pandemia.

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