Per focalizzare, nei suoi connotati peculiari, la concezione del cosmo vigente fino all’avvento della rivoluzione astronomica introdotta da Copernico, Galileo e Keplero e riscoprire la grazia della sua architettura monumentale non vi è, a mio avviso, guida più efficace di quella offerta da un maestro di questa esperienza di “riappropriazione conoscitiva”, quale Clive Staples Lewis (1898-1963).



Apparsa postuma, nel 1964, per i tipi della Cambridge University Press e poi costantemente ristampata, sino al 2022, dalla casa editrice britannica, l’opera di Lewis The Discarded Image. An Introduction to Medieval and Renaissance Literature, ha goduto, nel 1990, di una traduzione nella nostra lingua curata da Cristina Scagliotti, che, data in luce da Marietti con un sottotitolo poco fedele all’originale – L’immagine scartata. Il modello della cultura medievale – risultava da tempo reperibile solo d’occasione.



Oggi il libro di Lewis torna disponibile in versione italiana, con il titolo L’immagine scartata. Una introduzione alla letteratura medievale e rinascimentale. E l’iniziativa è merito dell’Editore Studium, che lo accoglie nella collana “Radici della modernità”, coordinata da Danilo Zardin, al quale si deve l’Introduzione al volume (Il modello che abbiamo “scartato” e la nuova scienza moderna).

Ne L’immagine scartata, Lewis, che è stato un insigne storico della letteratura inglese a Oxford e a Cambridge e insieme lo scrittore di successo delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, illustra con grande finezza la visione dell’universo appartenuta all’uomo europeo sino e anche oltre l’accoglienza su ampia scala delle evidenze strumentali circa la fondatezza fisica della tesi copernicana.



Lo studioso di Belfast ebbe consuetudine con le fonti di alimento alla tradizione enciclopedica che descriveva struttura e dinamismo dell’antica machina mundi. Per secoli, quella costruzione ideale – un formidabile amalgama di contenuti filosofici classici rivisitati e adattati al dettato biblico e al patrimonio teologico cristiano – che puntualmente affiora, nei suoi tratti più salienti, nella produzione lirica, come nelle arti visive medievali e proto-moderne, non fu appannaggio esclusivo dei dotti, ma raggiunse, nei suoi elementi costitutivi essenziali, anche la mente e i cuori delle persone semplici. A chiunque, del resto, risultava agevole avvalorare, in modo diretto, le nozioni assorbite da fanciullo, sui banchi di scuola. Gli bastava farsi spettatore del cielo notturno per assaporare l’emozione percettiva dell’universo e, all’unisono, quella della sapienza del suo Artefice.

L’uomo, anche quello poco avvezzo a letture di alto profilo, sapeva bene di non avere dinanzi a sé spazi muti, bui e vuoti. I più colti, poi, facendo riferimento alla dottrina di Pitagora che, rilanciata da Platone e Cicerone, soprattutto Macrobio e Boezio avevano amalgamato al pensiero cristiano, non dubitavano punto che le vaste sphaerae cave, ruotando ciascuna al proprio ritmo all’interno di quella soprastante, emettessero risonanze armoniche disciplinate dalla regolarità delle distanze fra i (sette) pianeti, che ricalcavano la scala dei toni e dei semitoni delle (sette) note musicali. Quella melodia sinfonica di concetti armonico-matematici risultava impercettibile, certo, ma questo solo perché essa riproduceva da sempre se stessa senza incertezze o pausa alcuna. Né le lontane regioni del cielo erano avvolte dalle tenebre. Il campo nero sul quale si stagliava il lucore delle stelle altro non era se non l’oscurità della lunga ombra conica che la Terra proiettava quando il Sole si trovava al di sotto dei piedi dell’osservatore. Oltre il vertice del cono d’ombra ruotante, ben al di sopra della sfera della Luna, i cieli erano costantemente immersi nella luce. E ancora: quegli spazi splendenti e musicali erano anche intensamente abitati. Li affollavano le intelligenze che animavano e guidavano il moto sincronico delle sphaerae e, distinti da quelle, ma allo stesso tempo immortali e sovrumani, vi erano gli angeli.

Nel suo dinamismo vitale, l’universo di Dante, come pure di Marino e di Milton, rappresentava un immenso organismo spirante e sensuoso, il quale doveva il suo moto perenne all’energia inesauribile che discendeva, digradando dai cerchi più esterni sino alle sfere più basse degli spazi siderali, dal fuoco divino che abbracciava la perfetta circolarità della massa fisica del reale, con al centro la Terra e la parte immediatamente circostante del mondo sublunare, soggetta alla legge inesorabile della generazione e della corruzione.

Lewis rimarca la compattezza armoniosa, le simmetrie, la mirabile ingegneria e la sublime avvenenza dell’imago mundi destinata ad essere faticosamente scalzata dal metodo matematico-sperimentale. Lo studioso britannico documenta infatti la rocciosa resistenza, nell’immaginario collettivo anche seicentesco, della concezione cosmologica di impianto aristotelico-tolemaico. Da dove discendesse la forte capacità persuasiva; la presunzione di aderenza alla reale struttura dell’essere che la vecchia immagine “chiusa” e geocentrica dell’universo seppe dimostrare non è poi difficile da comprendere. Nel conservarla a lungo in ossequio fu soprattutto l’affezione che, dal basso, l’uomo europeo le dimostrò.

Nel marzo del 1610, l’uscita a Venezia del Sidereus nuncius di Galilei  rappresentò una svolta epocale. Le evidenze telescopiche raccolte dal pisano smentivano la millenaria certezza dell’eterogeneità della materia celeste rispetto a quella terrestre; delineavano i tratti di un cosmo assai più esteso di quanto si fosse mai pensato; confortavano in modo sostanziale l’ipotesi copernicana che spostava l’uomo fuori dal centro del mondo. Ma la dismissione del  modello astronomico tradizionale si caricava di interrogativi angoscianti. L’immagine di un universo dai confini precisati, geocentrico, lucente e sinfonico doveva cedere a quella di uno spazio non solo di dimensioni smisurate, ma anche buio, silente, enigmatico.

Ancorché smentita dalla nuova astronomia, l’antica e lirica concezione dell’universus (unus + part. pass. di vertere, “volgere”), inteso come un’unità coerente, un tutto intero rivolto nella stessa direzione, continuò dunque, ancora a lungo, a rappresentare il referente e quasi l’“asilo spirituale” dell’immaginazione degli artisti. E così pure di chiunque alzasse gli occhi verso il cielo stellato, ritrovando il senso del proprio essere al mondo e la gerarchia di valori ai quali conformare la vita.

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