Dopo il presidente del Consiglio, diversi ministri e rappresentanti istituzionali, anche il titolare del dicastero per le Disabilità, Alessandra Locatelli, è andata a Caivano. È una cosa buona e dimostra la sensibilità dell’esecutivo e della stessa Locatelli, che hanno ben compreso che Caivano è solo un punto di partenza.
Del resto, solo pochi giorni fa il ministro dell’Interno Piantedosi si era così espresso: “abbiamo deciso di fare di Caivano un laboratorio importante per trasferire anche altrove moduli di interventi di cui vediamo già i primi effetti”. E prima di lui, prima di tutti, lo aveva detto la presidente Meloni annunciando che “Caivano sarà un modello”.
Tutto commovente, sebbene già visto.
Quante volte, davanti ai disastri dell’uomo o anche della natura abbiamo assistito a passerelle di solidarietà e ricette magiche? La gente ci credeva, aveva bisogno di aggrapparsi a quella speranza, salvo poi vivere la disillusione di essere abbandonata un istante dopo che le telecamere si spegnavano e i flash smettevano di scandire ogni passo.
Spero, dunque, non sia questo il modello da replicare, perché non è più tempo di promesse effimere e soprattutto perché la popolazione di Caivano, come di tante altre periferie, non merita di subire ulteriormente.
Quale modello allora si vuole realizzare partendo da Caivano per estenderlo a tutto il Paese? Inevitabilmente i primi annunci e le prime operazioni parlano la lingua della repressione, mostrano l’orgoglio ferito di una nazione che vuole riprendersi il controllo del territorio colpevolmente lasciato a bande criminali. È ovviamente giusto e prioritario, perché nessun intervento serio e razionale potrebbe attecchire su un terreno inquinato da condizionamenti negativi.
Ma il punto non è questo. La vera domanda è: basta solo questo?
È sufficiente un’operazione di resezione e bonifica dei tessuti malati che non sia accompagnata da efficaci politiche sociali di inclusione e tutela?
Si parla da anni del welfare dell’anti-Stato; il neo-procuratore di Napoli l’aveva efficacemente sintetizzato nella frase “Le mafie sono presenti dove ci sono i bisogni della gente”.
Questa consapevolezza deve portare a un approccio diverso, ad uscire dalla logica delle risposte emotive e dei provvedimenti emergenziali per inaugurare una stagione di programmazione seria, slegata da calcoli di parte, incondizionatamente finalizzata ad intercettare i bisogni della gente ed alleviare le sofferenze dei più fragili.
È presto per dire se sarà questa la vera ispirazione del “modello Caivano”, ma è proprio questo il tempo per ammonire, contestare, pretendere. Senza sconti, senza lasciarsi frastornare dalla grancassa mediatica, che ad un certo punto si sposterà altrove, per seguire altri drammi, altre emergenze.
Bene allora l’idea di ripartire dallo sport, dalla lotta all’evasione scolastica, dalla cultura: è il carburante indispensabile per lanciare una reale ripartenza, per ribadire che lo Stato non è solo divise e sirene, ma progetti e programmi di vita normale, di bellezza, di cultura.
In questa tempesta di energie un ruolo fondamentale potranno giocare le politiche di inclusione dei più fragili: il ministro Locatelli ha potuto ascoltare, non solo a Caivano, le difficoltà delle famiglie che vivono il problema e che si sentono abbandonate, quando non addirittura ostacolate, dai presìdi istituzionali che invece dovrebbero sostenerle.
La disabilità, purtroppo, resta un nervo scoperto, per cui lo Stato fa ancora poco e spesso si adagia sull’encomiabile supplenza delle associazioni e dei volontari. Ma le politiche in favore dei più fragili non possono rimanere fuori dal modello che si vuole costruire, perché altrimenti questo nuovo manifesto dell’esistenza fallirà ancor prima di decollare e sprofonderà nei suoi stessi limiti.
Se vogliamo ancora credere che “il diritto alla felicità vale per tutti”, come ha detto il ministro Locatelli, è tempo di pianificare, di investire, di fare rete, di includere anche la disabilità negli ambiziosi progetti che si preparano, non solo per Caivano.
Gli ultimi, gli invisibili, le persone a cui la società dedica meno spazio, meno tempo e meno attenzione di quanto sarebbe necessaria e certamente di quanta meriterebbero, attendono di capire se faranno parte dei nuovi e meravigliosi progetti che si vanno promettendo. I bambini e gli adulti diversamente abili vogliono sapere come sono stati immaginati in un rapporto normale con gli altri, se potranno frequentare la scuola, se avranno terapie adeguate, come sarà la loro vecchiaia, oppure se continueranno ad essere respinti, marginalizzati, differenziati, discriminati con l’ignobile causale della mancanza di risorse. Le loro famiglie devono percepire che lo Stato non li ha abbandonati, malgrado oggi ancora non conosca appieno i numeri del problema e quindi non sia in grado di programmare adeguatamente e sufficientemente le necessarie forme di assistenza.
In un mondo ideale non dovrebbe essere necessario ricorrere ad un giudice per vedersi riconoscere i diritti fondamentali dell’esistenza. Nella realtà, le famiglie che queste difficoltà le vivono tutti i giorni vi diranno che non è così: moltissime incontrano ostacoli anche solo per iscrivere un bambino a scuola, perché non è garantito l’insegnante di sostegno, se non per alcune ore, o perché non c’è un assistente materiale che lo aiuti nelle esigenze indifferibili. La coperta è sempre corta e purtroppo lascia senza riparo soprattutto le fasce deboli.
L’auspicio è che il modello Caivano rappresenti un cambio di passo, perché come il presidente della Repubblica ci ricordava solo pochi mesi fa “la concretezza della realtà convoca ciascuno alla responsabilità, sollecita tutti ad applicarsi all’urgenza di problemi che attendono risposte. La Repubblica vive della partecipazione di tutti, è questo il senso della libertà garantita dalla nostra democrazia”.
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