Vendere, non c’è altra via d’uscita che non implichi un probabile ridimensionamento della Roma. A fronte di un altrettanto probabile potenziamento delle dirette concorrenti. Già scritto. Come di un nuovo interesse americano: salutato Soros causa maldestro rilancio del legale dei Sensi, come stessero a un tavolo da poker, quando l’accordo era praticamente fatto, la Inner Circle si è messa a caccia di altri investitori e Unicredit ha preso l’affare in mano. Finché non si è trovata la disponibilità di Blackstone (e forse anche di un altro paio di soggetti), il fondo d’investimenti più ricco del mondo, talmente ricco da poter salvare la 158enne banca americana Lehman Brothers. Del resto, e ieri lo scriveva il Sole 24 ore, “i fondi di private equity sono gli unici usciti indenni dalla crisi dei mutui”.
Tutti scritto, niente smentito. Quindi si presume che sia vero. Come è vero che Unicredit spinge per la cessione della Roma perché è sempre più preoccupata dalle condizioni di Italpetroli: debiti per 377 milioni di euro e nessun asset, eccetto il club, da vendere in tempi brevi per alleggerire il fardello. E, soprattutto, il rischio che i revisori della Pricewaterhouse il 30 giugno, in assenza di piano di ristrutturazione, non certifichino il bilancio (già certificato con riserva nel 2007). Oppure lo facciano come se la società fosse in liquidazione, e in quel caso tutte le partecipazioni (a cominciare dalla Roma) dovrebbero fare introiti per pagare i debiti ed evitare il fallimento. Un’ipotesi molto nefasta, ma non impossibile. A meno che la banca non decida di concedere altro tempo ai Sensi. (Fonte: la Gazzetta dello Sport)



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