Perché una manifestazione come le Olimpiadi è diventata a tal punto pascolo di interessi politici ed economici da quasi oscurare il fatto sportivo per cui è nata? Quale profonda debolezza nasconde? O meglio, ancora più radicalmente, su quale ambiguità è costruito lo sport moderno per cui si presta così facilmente a ogni tipo di strumentalizzazioni e non riesce a risolvere i problemi che sempre più lo attanagliano: doping, finanze incontrollate, gigantismo organizzativo, sfruttamento dei giovani talenti, ecc.?
E di fronte a tutto questo, ha ancora senso seguire, apprezzare ed entusiasmarsi per le grandi manifestazioni sportive?



Chiariamo subito che le Olimpiadi sono la massima espressione dell’ideologia dello sport la quale, come ogni ideologia, presuppone l’incapacità della ragione di abbracciare l’intera realtà e perciò riversa su di un mito il bisogno di significato e salvezza dell’uomo.

La costruzione dello sport come mito fu perseguita da De Coubertin con lucida determinazione (nel 1931 scriveva nelle sue “Memorie Olimpiche” che lo sport deve essere una religione) e proprio a questo obiettivo si deve la scelta di immaginare la nuova grande manifestazione a somiglianza della più famosa celebrazione religiosa dell’antichità, in cui il corpo e l’agone erano fortemente esaltati.



Ma il valore delle antiche Olimpiadi non stava semplicemente nelle membra ben tornite degli atleti o nella accesa tensione della gara. Stava piuttosto nell’immagine di uomo che celebravano, un uomo che prende in considerazione ed esalta anche le forme atletiche ed agonistiche perché con il suo pensiero le comprende all’interno di un ordine cosmico. Un tale uomo è figlio della cultura greca, quella che ha fatto uscire l’umanità dalla caverna del mito per lanciarla nell’avventura della ragione e ha così generato l’archetipo dell’uomo occidentale.

Per rispettare la cifra originaria delle antiche Olimpiadi, De Coubertin avrebbe dovuto riconoscere la continuità che il cristianesimo costituisce rispetto alla cultura greca (come oggi ci sollecita Benedetto XVI) e indagare sulle ragioni del fenomeno che sotto i suoi occhi stava prendendo la forma: lo sport moderno.
Forse così si sarebbe potuto accorgere che nei college inglesi, che tanto ammirava, erano stati degli educatori cristiani, dei pastori anglicani per la precisione, a “inventare” lo sport, aprendo il cuore e la mente all’evidenza che una formazione globale dei loro allievi non poteva prescindere dal corpo.



Il barone francese seguì invece una strada diversa, in perfetta sintonia con i percorsi delle élite culturali che stavano generando i presupposti delle ideologie totalitarie del Novecento. Anziché allargare la ragione per abbracciare anche lo sport all’interno di uno sguardo unitario sul mondo e la vita, anziché quindi affermare l’identità come fattore determinante per contemplare un fenomeno, pose lo sport sull’altare del mito proponendolo come fattore di per sé adeguato a cambiare l’uomo e il mondo.

La sua impostazione si impose ed è ancor oggi largamente egemone; ma, come tutti le ideologie, ha i piedi di argilla.
L’intrinseca debolezza dello sport moderno sta nel non avere radici ben piantate nella ragione dell’uomo, in quel bisogno di spiegazione della realtà che è prerogativa esclusivamente umana e a cui l’uomo non può rinunciare. Il mito dello sport non è in grado di rispondere a questa necessità, tanto è vero che per sostenersi ricorre a continue iniezioni di emotività fine a se stessa (questo è il primo doping!).

Quanto sopra esposto ci può servire a capire che sarebbe assolutamente sbagliato snobbare Pechino 2008, come vorrebbero in molti, ché anzi sarebbe confermare, sia pure da un punto di vista opposto, la stessa impostazione ideologica. Potrà essere invece un’ottima occasione per smettere di guardare solo attraverso il filtro deformante dell’ideologia questo grandioso incontro di popoli e persone e provare ad aprire occhi e mente a ciò che veramente accadrà.