Pechino 12 agosto,
L’Olimpiade è un incontro tra persone. Prima dell’avvenimento si leggono sui giornali i nomi degli atleti e si considerano solo come avversari, poi s’incontrano e diventano persone con le quali avere nuovi rapporti.
Ho vissuto in prima persona tre Olimpiadi (Barcellona, Atlanta e Atene), ma non mi sembra che sia mutato lo spirito. Vedo lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di incontrarsi.
L’Olimpiade tenta anche di equiparare tutti gli sport, anche quelli che – si pensi al calcio – hanno seguiti diversi soprattutto in Italia. Certo ci sono dei contesti politici che non possono essere trascurati, ma lo spirito positivo delle nazioni che vi partecipano va sottolineato.
Per i kenyani l’Olimpiade rappresenta la sublimazione di un mito, il mito della corsa. I kenyani fanno le corse di media e lunga e distanza. La corsa è un modo di vivere. Fin da bambini si muovono correndo per andare a scuola. Per un popolo che come possiamo intuire ha molte difficoltà, la corsa diventa un modo per emergere, per farsi valere anche a livello internazionale: la corsa assume quasi un valore mitologico.
Certo allenare gli atleti africani non è scontato: sono molto disponibili, ma inizialmente esprimono una certa diffidenza accentuata anche dall’incognita della lingua. Molto spesso gli africani, i kenyani in particolare, corrono in maniera istintiva sia in gara che in allenamento. Allenare un atleta africano significa riuscire a capire quali energie vengono ad alimentare la corsa e in che modo possono essere indirizzate per farle rendere al meglio. La persona che attraverso l’allenamento trova delle chiavi di lettura per farli migliorare viene considerata alla stregua di un maestro di vita.
Ho incontrato persone con grandi desideri di affetto e di comunione. Molti atleti kenyani si preparano negli impianti di Bussolengo dove sono stati accolti molto bene e sono ormai parte integrante del paese.
Ho vissuto in prima persona tre Olimpiadi (Barcellona, Atlanta e Atene), ma non mi sembra che sia mutato lo spirito. Vedo lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di incontrarsi.
L’Olimpiade tenta anche di equiparare tutti gli sport, anche quelli che – si pensi al calcio – hanno seguiti diversi soprattutto in Italia. Certo ci sono dei contesti politici che non possono essere trascurati, ma lo spirito positivo delle nazioni che vi partecipano va sottolineato.
Per i kenyani l’Olimpiade rappresenta la sublimazione di un mito, il mito della corsa. I kenyani fanno le corse di media e lunga e distanza. La corsa è un modo di vivere. Fin da bambini si muovono correndo per andare a scuola. Per un popolo che come possiamo intuire ha molte difficoltà, la corsa diventa un modo per emergere, per farsi valere anche a livello internazionale: la corsa assume quasi un valore mitologico.
Certo allenare gli atleti africani non è scontato: sono molto disponibili, ma inizialmente esprimono una certa diffidenza accentuata anche dall’incognita della lingua. Molto spesso gli africani, i kenyani in particolare, corrono in maniera istintiva sia in gara che in allenamento. Allenare un atleta africano significa riuscire a capire quali energie vengono ad alimentare la corsa e in che modo possono essere indirizzate per farle rendere al meglio. La persona che attraverso l’allenamento trova delle chiavi di lettura per farli migliorare viene considerata alla stregua di un maestro di vita.
Ho incontrato persone con grandi desideri di affetto e di comunione. Molti atleti kenyani si preparano negli impianti di Bussolengo dove sono stati accolti molto bene e sono ormai parte integrante del paese.
Nell’Olimpiade ci sono tre livelli basilari: partecipare, essere protagonisti e vincere una medaglia. Per un kenyano partecipare all’Olimpiade significa essere uno degli eletti, cioè avere superato dei trials molto difficili nei quali si affrontano i migliori al mondo. Partecipare è, quindi, già un evento mitico. Sapere essere protagonisti significa onorare se stessi e il proprio Paese. Portare una medaglia al Paese vuol dire valorizzare la corsa, il mito. Per loro è fondamentale essere riconosciuti.
Nel 2004 sono stato al matrimonio di Wilfried Bungei (mondiale indoor e argento all’aperto): c’erano 250 invitati, una sessantina di atleti e circa 4mila persone dei paesi vicini che hanno partecipato alla cerimonia e al termine in fila indiana (mi commuovo ancora a pensarci) hanno donato agli sposi qualcosa di quel poco che avevano. Ecco per un allenatore la gratificazione non è certamente economica, ma i rapporti personali che si possono creare non hanno paragoni.
Nel 2004 sono stato al matrimonio di Wilfried Bungei (mondiale indoor e argento all’aperto): c’erano 250 invitati, una sessantina di atleti e circa 4mila persone dei paesi vicini che hanno partecipato alla cerimonia e al termine in fila indiana (mi commuovo ancora a pensarci) hanno donato agli sposi qualcosa di quel poco che avevano. Ecco per un allenatore la gratificazione non è certamente economica, ma i rapporti personali che si possono creare non hanno paragoni.
Vorrei chiudere con un augurio ai nostri atleti: di vivere l’esperienza non come dimostrazione di quello che valgono, ma come scoperta del proprio valore; non per dimostrare agli altri qualcosa ma per cercare di scoprire loro quello che sono. Dare il 100% per vedere il risultato finale, il desiderio di provare i propri limiti. La curiosità di dare il massimo e di vedere cosa si vale. Questo è l’atteggiamento sportivo e agonistico sano che suggerisco di tenere . Nel mezzofondo veloce italiano i nostri atleti stanno crescendo. Elisa Cusma potrebbe arrivare in finale negli 800 metri, per gli altri inserirsi nei primi 10/12 al mondo sarebbe già un buon risultato. Poi si vedrà.
Gianni Ghidini