Anche i cinesi ridono, piangono, si esaltano, sbagliano, si abbracciano, s’incazzano. Forse sotto sotto ne dubitavamo un po’, ma adesso ne siamo più sicuri: sono uomini anche loro.
Ce lo hanno fatto vedere le Olimpiadi dove la pasta di cui uno è fatto viene a galla molto bene.
Per questo le Olimpiadi non hanno deluso, anzi hanno esaltato. Ha trovato ciò che cercava, anzi molto di più, la stragrande maggioranza di atleti e spettatori che desiderava un’espressione viva e gioiosa dell’umano, una trasparenza immediata del desiderio di bellezza che muove ogni figlio di uomo che nasce su questa terra.
Il linguaggio del corpo, universalmente riconoscibile da ogni cultura, coinvolgente in modo totale, impossibile da mascherare nei momenti di alta tensione, ha rivelato il vero volto di ciascuno, tanto quello di chi le gare le gare le viveva da protagonista, quanto quello del “nessuno” che cercava di usarle solo per sé.
Non è per sciovinismo che viene da usare i termini che appaiono nel titolo del Meeting, ma perché è davvero evidente che si sta trattando della stessa dinamica: la ricerca del bello, del vero, del giusto; o la decadenza nel nulla.
Di chi ha cercato di percorrere la prima via abbiamo fornito alcuni esempi con il nostro “Diario Olimpico”, che ha avuto il merito di cogliere voci e punti di vista di atleti che non sono saliti sulla grande ribalta e che proprio per questo hanno dimostrato che ad uscire vincitore dalla propria personale sfida può essere anche chi non sale sul podio.
Può essere invece utile, sul fronte opposto, stigmatizzare il comportamento della nostra rappresentativa di calcio. Il “biscotto” con il Camerun non è stato semplicemente una tattica meschina (se poi ci ricordiamo degli anatemi lanciati contro Van Basten per paura che facesse la medesima cosa agli Europei, qualcuno si dovrebbe davvero vergognare), ma è grave perché colpisce il cuore stesso dell’atleta, il motivo più profondo del suo fare sport.
La competizione ed il gioco non sono optional; sostituirli con il calcolo ed il non-gioco significa privare lo sport delle sue caratteristiche più potenti. L’atleta si trova in mano un’arma spuntata, un attrezzo fallato. Quella che è la sua espressione più vera gli viene tolta. Di fatto gli viene chiesto di rinunciare a scoprire se stesso in cambio di risultato e successo. Ma così si mina l’identità stessa di una persona e non c’è poi da stupirsi se la squadra si sfascia.
È la dimostrazione che lo sport non è la somma matematica di tattiche, tecniche, allenamenti, politiche, impianti, investimenti…e chi più ne ha più ne metta. C’ è un elemento imponderabile senza del quale niente si mette in moto, i pezzi rimangono sconnessi, il fascino cede alla noia: la persona nella sua irriducibile tensione verso l’infinito.
Ed è a questo livello che si può costruttivamente agganciare la domanda che regolarmente alla fine di ogni Olimpiade tutti si fanno: come prepararsi alla prossima edizione?
I campioni non nascono sotto i cavoli, sono il misterioso frutto dell’incontro tra la libertà dell’atleta e la proposta positiva di un ambiente. Sì, ancora una volta stiamo parlando di educazione, parola praticamente mai sentita durante questa Olimpiade, se non col riduttivo significato di addestramento.
È invece implicitamente risuonata innumerevoli volte nei ringraziamenti e nelle dediche degli atleti intervistati, che si rivolgevano a genitori, moglie o marito, nonni, tifosi, allenatore, morosi, collaboratori, staff tecnico,… Espressioni non di semplice affetto, ma di gratitudine per il sostegno ricevuto, il sacrificio comune, per aver creduto nelle possibilità di crescita e successo, per essere stati accompagnati in un cammino, per essere stati oggetto di attenzione e cura.
Questo è un segnale decisamente controcorrente rispetto alla mentalità che ha sistematicamente distrutto i riferimenti culturali della nostra tradizione, un’indicazione di una possibile strada per contrastare la mutazione antropologica di cui sono preda le nuove generazioni. Dietro e dentro ad un vero campione c’è un enorme bagaglio di valori che non possono e non devono essere ridotti al solo ambito sportivo perché sono civili e culturali a pieno titolo. Portarli alla luce, chiarirli e divulgarli può essere un bel compito per i prossimi quattro anni.