Cinque anni fa, nel giorno di San Valentino, festa di rose e cioccolatini, un giorno in cui per convenzione o convinzione il pensiero della morte è lontano anni luce, si è abbattuto un fulmine sul mondo dello sport e del ciclismo in particolare.
Più forte del doping, più triste di una caduta, destinato a consacrare definitivamente alla leggenda le gesta sportive di un grande campione in quel momento diventato “solamente” un uomo per cui le salite della vita erano diventate troppo pesanti e i rapporti (reali e metaforici) troppo duri da spingere in avanti.
Marco Pantani moriva così, tra mistero e solitudine in una camera d’albergo. La mamma Tonina non si dà pace, ancora si tormenta per quel campione che per lei era solo “Marcolino” dagli occhi dolci, dal sorriso grande e con quelle orecchie un po’ a sventola che (core de mamma) lei non avrà mai neppure notato.
E il ricordo di un figlio tormentato, per cui lei non ha potuto far nulla è quanto resta a Tonina che, in una intervista pubblicata oggi su La Gazzetta dello Sport, ricostruisce così l’ultimo giorno di vita del figlio: «Marco è andato a Rimini, al Residence le Rose perché lì andava Christina (la sua fidanzata di allora, ndr) quando faceva la cubista e perché cercava Carlino, uno degli spacciatori, per chiedergli il nuovo numero di telefono di Christina. La cercava anche lì. E’ stata la sua ossessione fino alla fine».
Parla di un grande vuoto, sua madre, quello stesso vuoto che, in modo diverso, provano anche tutti i tifosi del Pirata.
E non riescono a darsi pace neanche oggi, i tanti appassionati, quelli più “datati” come i più giovani, quelli lo stesso Pantagigio ha conquistato, tra imprese e cadute e ha saputo far innamorare di uno sport, il ciclismo, diviso tra fascino e scandali.
Il ciclismo non è lo stesso, e a cinque anni di distanza una ferita si è riaperta. Lo dicono le decine e decine di messaggi sul sito internet della Fondazione Marco Pantani Onlus, che testimoniano un amore non sopito per un campione che ha saputo ammaliare con le sue imprese tutta Italia (ma senza dividerla, come fecero Coppi e Bartali).
Un’Italia che però – come nel dopoguerra – nel ciclismo tornava a vedere che dietro alla sofferenza c’era la gloria e che un ragazzo di provincia, più la strada si faceva dura, più si metteva in salita, più veniva percosso dalla sfortuna, era in grado di rialzarsi sui pedali e far esplodere quella rabbia agonistica capace di abbattere ogni ostacolo.
Forse, ripensandoci, che sia stata la festa degli innamorati il giorno in cui Marco Pantani è entrato nella leggenda, pur nella sofferenza di tutti, ha un significato tutto suo.
Di certo anche noi, che l’abbiamo visto sull’Alpe Duez, sul Mortirolo e sul Gavia, come ha scritto Simone da Rieti sul sito della Fondazione Pantani possiamo dire: OGNI VOLTA CHE VEDO UNA BICI C’E SOPRA MARCO.