«Tutto avrei immaginato alla mia età che innamorarmi dei preti. Sono uno che si innamora. Ho degli affetti nel carcere, tra i disabili. Sono tutti nel mio cellulare e nel cuore. Con questi preti è lo stesso. Hanno arricchito la mia vita nel senso vero. Ho avuto la mia carriera, la partenza dalla Sicilia con tanti problemi (la guerra…). A 70 anni puoi dire che te la puoi godere, ma la ricchezza è venuta dopo. Devo ringraziare la Provvidenza che mi ha dato questa parte della vita. Per quanto fosse prestigiosa e importante la vita che ho trascorso prima, a me questa pare la più bella e la più ricca». Si raccontava così Candidò Cannavò pochi giorni fa, tracciando, forse involontariamente, un bilancio della sua vita.



Ma innanzitutto ha saputo comunicare le emozioni dello sport. Quanti hanno iniziato le loro giornate al bar leggendo i suoi editoriali, quanti tra colleghi e addetti ai lavori lo ascoltavano per cercare quel “punto di fuga”, quel giudizio pertinente che la frenesia del calcio e del mondo in generale nega troppo spesso. Cannavò, siciliano di Catania, iniziò la sua carriera come giornalista per il quotidiano “La Sicilia”, poi inviato della Rai per lo sport prima di assumere la direzione, quasi ventennale (1983-2002), del primo quotidiano sportivo italiano: la Gazzetta dello sport. Uno di quei giornalisti cresciuti con la mitica “Olivetti Lettera 22”, ma capace di adattarsi nel tempo alle nuove tecnologie. Appassionato di calcio e di ciclismo, ma anche di atletica e di sci. I lettori hanno potuto conoscere attraverso la sua penna i ritratti di campioni e di semplici comprimari del mondo sportivo.



Battagliero e poco incline alle sudditanze con i potenti, ha preso duramente posizione contro la piaga del doping e contro la deriva, rappresentata dal periodo che passerà alla storia come “calciopoli”, del pallone. E negli ultimi anni della sua vita ha concentrato, pur mantenendo una rubrica sulla Gazzetta, la sua produzione letteraria: Una vita in rosa, Libertà dietro le sbarre, E li chiamano disabili e Pretacci. Se in “Una vita in rosa” ha descritto in un’autobiografia il suo mezzo secolo da giornalista sportivo fra Mondiali e Olimpiadi, negli altri tre libri ha soffermato la sua attenzione sull’aspetto sociale. In particolare, ci piace sottolineare la lettura in chiave positiva della disabilità. In “E li chiamano disabili” (Noi, che abbiamo vinto sull’handicap) racconta le storie di vita di persone che non si sono lasciate piegare dalla disgrazia e dalla menomazione e che, anzi, hanno soddisfatto le loro passioni e i loro sogni. Anche nello sport. Fabrizio Macchi nel ciclismo, Simona Atzori, nata senza braccia, che ha coronato il suo sogno da ballerina o Andrea Stella, velista, solo per citarne alcuni. In queste settimane stava girando su e giù per l’Italia per la presentazione del libro “Pretacci”, venti storie di sacerdoti a stretto contatto con i poveri e gli emarginati. Nei suoi libri la chiave del successo consiste nel gusto del racconto e dello scavare per trovare e scoprire storie, andando oltre la superficie: «Io vorrei che un certo piacere fosse assaporato da chi legge. Faccio queste cose con piacere».



Utilizzando una metafora sportiva ha tagliato in solitaria il traguardo della vita, lasciandosi alle spalle ammiratori e critici. Giovedì prima di essere trasportato in ospedale d’urgenza, si trovava come sempre in redazione, circondato dai colleghi che per anni sono stati diretti e cresciuti alla sua scuola. Forse non poteva essere un luogo più adatto per dire addio a tutti. Lascia al giornalismo sportivo e a chi resta una testimonianza limpida e serena: quella di un cronista che amava raccontare la vita reale, quella di tutti i giorni.

Luciano Zanardini