Secondo Gianni Brera, “mago” era un vocabolo punico che all’ablativo fa “magone”. Lo ricordava spesso ad “accaccone”, altro sopranome affibbiato a Helenio Herrera, sottolineando che il grande ciclo interista degli anni Sessanta, era dovuto, più che all’allenatore, alla competenza e al mecenatismo del presidente Angelo Moratti e alla pari competenza e furbizia di Italo Allodi, ispiratore dell’allora giovane Luciano Moggi. Sempre secondo il grande giornalista e scrittore, erano Moratti e Allodi a imporre al vulcanico e un po’ esotico spagnolo Herrera la formazione e lo schema di gioco. Chissà che cosa avrebbe scritto Brera oggi, dopo Manchester-Inter, del nuovo “maghetto lusitano”, che si porta dietro un nome da Conquistador, José Mario dos Santos Mourinho Felix, per cui non può non prendersi sul serio e sentirsi importante.



Dopo questa, occorre fare un’altra premessa. Figlio di una Milano povera e bombardata dalla guerra, animata da una grande voglia di riscatto in tutti i campi, il sottoscritto ha riferimenti contorti in personaggi storici contrassegnati da un grande realismo e da uno spiccato anti-moralismo. In ordine sparso, Giuseppe Garibaldi, Giorgio Amendola, Bettino Craxi, don Luigi Giussani e Nereo Rocco. Probabilmente un “minestrone” teorico confuso, ma dal sapore esistenziale forte, che hanno sempre comunicato “voglia di battaglia con la necessaria furbizia e prudenza, nel grande rispetto dell’avversario”. C’è qualche cosa in più. Il sottoscritto è un “milanista storico”, transitato persino tra i “pulcini” del Milan, mentre Craxi tifava Torino e don Giussani era addirittura interista. Inevitabile che questa note pecchino di faziosità.



Per cui andiamo. Quando l’ormai celebre “Mou” si è presentato in Italia era piena estate. Il lusitano aveva vinto una avventurosa Champions League con il Porto e si portava dietro, sbandierandolo, il titolo di “Special One” per aver vinto in Inghilterra con il Chelsea, del magnate russo Abramovich, e la patacca di testimonial dell’American Express. Il suo tono un poco apodittico faceva scattare una naturale e ormai radicata diffidenza. Eppure Mourinho è un bell’uomo e, naturalmente, lo si ascolta volentieri. Ha cominciato a guadagnarsi da vivere come interprete, per cui può permettersi di ammaliare la nostra “liberissima stampa” con incursioni gergali del tipo “Non sono un pirla, io”. In più, capisce come pochi il linguaggio dei media: le pause, l’aggressività, le iperboli, le battute, le dichiarazioni forti e gli improvvisi spiazzamenti. E’ un personaggio che nei nuovi reality, nei talk show, ma persino nei dibattiti politici e culturali farebbe sempre la sua bella “sporca figura”. Nell’attuale mondo dello show-biz, come dicono i francesi, è un perfetto “uomo senza qualità”. Che sia “politicamente scorretto”, come sostiene qualcuno, in un mondo pietrificato come il nostro calcio, è una cosa che appare quasi banale. Ma quello che non convinceva subito di “Mou” erano i troppi “echi” herreriani, del “calsio intenso”, delle “motivasion”, su fino alla sbracamento dell’arbitro che fischia in modo “strano” e alla scivolata, scambiata per chicca mediatica, sulla “prostituzione intellettuale”, con tanto di “manipolazione” e “zeru titoli a tutti”. Alla fine la diffidenza si è lentamente trasformata in impressione di fondo: Mourinho non ha nulla da insegnare al “calsio” italiano, più di quanto abbia fatto il grande Oronzo Pugliese, grande italianista nel gioco, ma pessimo in grammatica, sintassi e consecutio temporis. Il povero Oronzo veniva bersagliato dai mattocchi di “Alto gradimento” negli anni Settanta che, facendogli spiegare la classifica, trasformavano il suo linguaggio, già veramente antipolitico, che diventava: “La glassigazione del canu”. Tuttavia, come vecchi “guardoni” di calcio, è propria l’idea di “calsio” mouriniana e il modo di affrontare una grande partita che non ci convince. Secondo i tattici della nuova scuola, Mourinho sarebbe affezionato al “4-3-3” e per questo avrebbe dissanguato il suo presidente con l’ectoplasma Quaresma, quello della “trivela” che hanno già tutti dimenticato. Ma se si guardano bene le sue squadre, si vede che non ha un’idea precisa e che si adatta troppo alle circostanze di una partita, riuscendo solo rare volte a far giocare bene e confidando spesso nella potenza fisica di alcuni suoi giocatori. Carlo Ancelotti, fra il serio e lo scherzoso, ha detto tempo fa: “Non l’avremmo preso neppure per allenare i portieri, perché Mourinho non ha giocato e non sa neppure tirare in porta”. Ma il punto non è questo. Piuttosto è l’ atteggiamento nell’affrontare una partita che non convince, quella sicurezza che sconfina a volte in una sicumera al limite del grottesco.



Qui, scusate, entra in gioco la “filosofia” del vecchio Milan di Nereo Rocco. Il paron ha coniato frasi più celebri di “Mou e ha vinto per primo in Italia una Coppa dei Campioni. Nel suo Padova del 1958 (derubato di uno scudetto dagli arbitri, secondo Brera), accolse prima della partita un conte savoiardo che accompagnava la Juventus. Il conte brindò a “Vinca il migliore !”. Rocco brindò anche lui, aggiungendo in triestino: “Ciò, speremo de no!”. Quando a Padova andò il Milan di “sua maestà” Juan Alberto Schiaffino, Rocco prese da parte il suo “rabicano” Gastone Zanon e gli disse: “Schiaffino ti te lo prendi in spogliatoio, no te lo moli mai e s’el va a pissar te ghe va drio”. In quell’Italia degli anni Sessanta, con la televisione a cadenza romanesca, Rocco sembrava ai nostri giornalisti e un po’ a tutti una sorta di campagnolo incolto. Ci volle Gianni Brera e quelli che lo conoscevano per ricordare a tutti che Rocco in realtà si chiamava Rock (solo il fascismo l’aveva fatto diventare un avellinese), come l’ispettore della brillantina Linetti in Carosello, e era cresciuto nella città più mitteleuropea d’Italia, che solo per cultura diffusa della sua popolazione valeva più degli intellettuali di via Teulada. Il vecchio Nereo citava sempre: “Mi son de Francesco Giuseppe”, citando l’ultimo imperatore del Sacro Romano Impero. Come è noto Rocco passava per catenacciario. In realtà era talmente colto e di buone letture, che mi spiegò, anche in ultimo pranzo a “L’Assassino” di Milano, prima di ritornare a Trieste per morire, che era un teorico del “zogo all’italiana”, imparato dal cartaginese Annibale dopo la battaglia di Canne. Rocco conosceva benissimo il “Safety first” di Sir Herbert Chapman, mitico allenatore dell’Arsenal, e il “verrou” dell’austriaco, poi andato in Svizzera, Karl Rappan. Conosceva ancora di più la classica “scuola uruguagia”, quella che difendeva anche lo 0 a 1, ma che poi andava a vincere il titolo mondiale a Rio de Janeiro, provocando duecento suicidi per il dolore nella torcida carioca. Ma poiché Rocco pensava, come il suo amico Brera, che il calcio era una metafora della vita, ritornava in perfetto triestino alla battaglia di Canne, dove il malinconico Emilio Paolo e il tronfio Terenzio Varrone ( il Mourinho dell’ epoca), con un esercito che era il doppio, o quasi, di quello cartaginese, avevano cercato di sfondare al centro. Annibale li aveva lasciati avanzare, contenendoli con truppe pronte a sacrificarsi e poi li aveva aggirati sulle ali con il suo grande Maarbale, il capo della cavalleria Numida. Rocco si entusiasmava: questo è stato il più grande contropiede della storia, un boomerang terrificante sfruttando la forza degli altri. In grande sintesi, Brera sentenziava: “L’Italia è una squadra femmina, che ti invita ad accomodarti e poi ti stritola”. E si vedeva infatti lo schema di Canne nel suo Padova, con le “truppe” dei Blason, degli Scagnellato, dei Pison, degli Azzini pronti a sacrificarsi e dell” “uccellino” Hamrim nei panni di Marabale pronto a colpire. Quanto ragionava Rocco e quanto era realista ! Continuava a dire “Noi poareti” e nella finale di Wembley tra Milan e Benfica, schierò all’ala destra con compiti di copertura un altro “rabicano”,Gino Pivatelli, che alla fine risolse la partita facendo “partire” un ginocchio al grandissimo Coluna. Quando glielo si ricordava, Rocco scuoteva la testa e ammetteva: “Come se poteva vinzer quela partita ? Ma va in mona !” Sempre burbero, si portava dietro le sua tristezze. Come quello dello scudetto perso dal Milan nell’ultima giornata a Verona nel campionato 1973- 1974. A pochi, tra cui il suo bravissimo biografo Gigi Garanzini, disse: “So anche chi ga portà i soldi, de qua e de là”. Ma il nome del “regista” ( sette lettere) restò tra pochi e Rocco, neanche fosse uno gnomo di Mediobanca se lo portò nella tomba, imponendo di non rivelarlo mai. Altro che lo “strano” di Mou. Quindi lasciamo perdere tattica e catenaccio. Rocco era solo un uomo colto, che conosceva gli uomini ed era dotato di grande realismo e quindi di grande buon senso. La sua filosofia calcistica in soldoni, per creare una grande squadra, era sempre la stessa: “Un grande portier, un asasin in difesa, un genio a centrocampo e un davanti che la buta dentro”. Lo avrebbe detto anche un altro grande allenatore del Milan, Arrigo Sacchi, che Brera non amava e di cui diceva: “Con quella squadra ha vinto due Champions ma è riuscito a perdere due scudetti”.

Mourinho invece è un “motivator”, e pensa al “calsio intenso”. Dopo la partita dell’Old Trafford è riuscito a “prendere a sberle” indirettamente anche il suo presidente, Massimo Moratti, anche se pochi lo sottolineano: “Questa è la forza di questa squadra. Ma a questi livelli bisogna avere qualche cosa di più e io farò un programma con il presidente”. In pratica, l’Inter attuale non è da Champions League. E via con l’intensità, gli annessi e connessi: se Ibrahimovch non prendeva la traversa, se il “figlio brasiliano della sora Lella”, al secolo Adriano, non prendeva il palo in acrobazia come al solito sciabalenta. Persino il grande popolo del “teatro dei sogni” di Manchester gli ricordava, cantando: “You are not Special anymore”. Chissà se abbasserà un po’ i toni nelle prossime conferenze stampa?