50 ANNI MORTE FAUSTO COPPI – È difficile scrivere su Fausto Coppi qualcosa che un lettore medio non sappia già. Non solo il lettore specialista di ciclismo, l’appassionato, il fanatico, ma anche il lettore qualunque. Chiunque, se interrogato, saprebbe nominare le imprese più significative e le frasi più celebri ricollegate a tale uomo. Di Fausto si sa tutto.
Chi scrive quest’articolo è troppo giovane, e non ha mai visto una sua corsa. Eppure ogni competizione ciclistica è segnata da almeno un aneddoto che lo riguarda. La rete è piena di notizie, di descrizioni delle sue vittorie. Le librerie contano decine di volumi dedicati al campionissimo, l’ultimo dei quali è stato avvistato dal sottoscritto persino in un Autogrill, tra i molti volumi di Faletti, vicino a quelli che sparano veleno e insinuazioni contro al Vaticano o alla politica.
Ogni gesta coppiana è divenuta celebre, fin dalle prima, la Fuga sull’Abetone, appena ventenne, nel 1940, davanti al capitano Bartali. Ancora oggi Coppi è il più giovane vincitore di un Giro. Poi la guerra, e col Ginettaccio toscano un dualismo che spezzò l’Italia in coppiani e bartaliani. Di quei due si potrebbero raccontare centinaia di aneddoti di invidia e di amicizia, di rivalità e di cordialità, di borracce scambiate e di fughe insieme, di litigi furibondi e di partite a carte. E poi la Cuneo-Pinerolo, “l’uomo solo al comando”, le fughe infinite in Francia, l’Alpe d’Huez e il Puy de Dôme, fino al 1953 e alla vittoria dell’unica competizione che ancora gli mancava, il mondiale di Lugano.
Quindi, a dirla tutta, oggi si celebra un mezzo anniversario: Fausto, 50 anni fa, non se n’è andato; il 2 gennaio 1960, è semplicemente morto. Da allora di lui si è continuato a parlare, e quando non siamo noi a parlarne, ci pensa la strada a ricordarcelo. Non c’è luogo in Italia che non sia stato attraversato da una sua impresa. Pinerolo, lo Stelvio, il Turchino, sono nomi che se pronunciati riportano subito a lui. Un monumento sul Pordoi, la montagna che più volte è stata affrontata nella storia del Giro d’Italia, ci ricorda la sua fuga tra Falzarego e Sella, e la sua vittoria a Bolzano, davanti a Bartali.
Sullo Stelvio una stele ne ricorda il nome, e quel fantastico attacco che nel 1953 lo portò a staccare Koblet e a conquistare il suo quinto Giro, a 13 anni dal primo nel 1940. Dagli anni ’60 si ribattezza col suo nome la cima più alta che viene attraversata dal Giro d’Italia, la Cima Coppi, appunto. Persino i francesi, che verso gli italiani, si sa, sono piuttosto esigenti, hanno collocato un monumento sull’Izoard in sua memoria. Sui primi tornanti dell’Alpe d’Huez, montagna che venne due volte dominata dal campione piemontese, si legge il suo nome. Ma non solo le vittorie sue vittorie ce lo riportano alla memoria, persino le sue sconfitte hanno strappato dall’oblio posti che altrimenti sarebbero rimasti destinati all’anonimato.
Le scale di Primolano non direbbero niente a nessuno, ma ecco, per una caduta di Coppi, sono divenute per tutti “le Scale di Primolano, dove Coppi perse un Giro già vinto”. Cinquant’anni fa se ne andava un corridore che si è fatto e si fa ancora amare. Potrebbe venire il dubbio che tale amore sia dovuto alle sue incredibili e innumerevoli vittorie, perché Coppi era un vincente, vinceva dappertutto: in salita costruì il proprio mito, ma sul passo regolò ogni avversario, stabilendo il record dell’ora e imponendosi in gare a cronometro e ad inseguimento su pista. Vinse grandi Giri (7: 5 Giri e 2 Tour, e all’epoca il Giro era quello prestigioso e duro) e vinse grandi classiche, come la Roubaix, il Lombardia e la Sanremo.
Le vittorie da sole, però, non giustificano la passione con cui il suo nome ancora oggi è pronunciato. Altri hanno vinto anche più di lui, eppure sono meno amati. Forse è altrove, già nelle sue origini, che occorre ritrovare il giusto ingrediente che ha reso speciale questo campione. Vi era in lui una certa scorza, una forza ruvida che si trova solo in chi è irrequieto, in chi si sente di confine, coinvolto sì in una società in movimento, ma condannato, ovunque tentasse di scappare, a sentirsi un poco a casa.
Nacque nella zona di faglia tra le pressioni tettoniche dei tre pistoni industriali del tempo, Genova, Torino e Milano. Vide i natali proprio là in mezzo, nelle colline piemontesi di Tortona. A Novi Ligure –la città del primo campionissimo, Girardengo– crebbe ciclisticamente. Al Vigorelli di Milano firmò le proprie imprese su pista, e del Giro di Lombardia è tuttora il re incontrastato (5 vittorie: nessuno come lui). In Liguria abitò a lungo, recandosi spesso allo stadio per tifare il Genoa o la Sampdoria –benché il suo amore rimanesse per i Grigi dell’Alessandria.
Forse è per questo che Fausto, strizzato ed accerchiato da ogni dove, divenne così bravo a prendere ed andare via, in fuga. Sull’Abetone o sul Sestriere non gli toccò di fare altro che non quello che già sapeva fare: andarsene, da solo, e lasciare il gruppo indietro. Così, a 50 anni di distanza, ci ritroviamo ancora ad omaggiare un campione nella ricorrenza della sua morte, perché è riuscito a far sembrare facile quello che tutti vorrebbero fare, ma che in ben pochi osano tentare.
(Luigi Crema)