INTER – Samuel Eto’o si presenta in jeans e maglioncino nero, per ricevere l’Altropallone, premio nato in alternativa al «Pallone d’oro» perché si assegna non per i meriti calcistici in senso stretto ma per il fairplay e per le attività di solidarietà svolte fuori dal campo. Quest’anno, accanto al premio giunto ormai alla tredicesima edizione, è stata lanciata la campagna «Altrimondiali», un’iniziativa di sensibilizzazione di CoLomba, associazione che riunisce un centinaio di ong che hanno sede in Lombardia. In occasione della premiazione Eto’ ha risposto alle domande della giornalista di Vita non profit magazine. L’intervista è sul numero di Vita in edicola questa settimana, che gentilmente anticipiamo.



Samuel, i Mondiali saranno un’occasione anche per l’Africa?

L’occasione che ha l’Africa è dimostrare che siamo capaci di organizzare un evento importante come i campionati mondiali di calcio. Sarà il Mondiale migliore giocato fino ad oggi.

Cosa rappresenta per lei l’Africa?

Sono nato in un angolo sperduto dell’Africa, e ancora più sperduto del Camerun dove solo un ragazzo su dieci riesce ad arrivare a un buon livello di istruzione. Dio ha voluto che partissi da là e che arrivassi a essere la persona che sono ora. Sono molto credente, e un giorno mi sono detto: “Se Dio mi ha dato queste possibilità, perché non devo condividere quello che ho con gli altri?”».



Lei in Camerun ha dato vita a un fondazione non profit. Che cosa l’ha mossa?

Ho scoperto che quello che mi fa più piacere nella vita è condividere quello che ho con altre persone. Nei confronti dei ragazzi del mio Paese poi mi sento una sorta di fratello maggiore, così a un certo punto ho voluto formalizzare questo impegno e creare una fondazione per aiutare più persone a ritrovare una strada, attraverso le relazioni e anche attraverso lo sport. La sua Fondazione si occupa di bambini, in particolare di quelli che hanno problemi con la giustizia.

Perché questa scelta?

Quando sono andato nel carcere di Douala ho trovato ragazzini anche di 9 anni incarcerati insieme agli adulti in condizioni difficilissime, magari incarcerati per aver rubato frutta al mercato. Rimangono in cella per molto tempo solo perché non possono pagare la tassa giudiziale che equivale a 10 euro. Mentre raccolgo questo premio, sono il volto visibile di chi lavora con me e che con me è riuscito a fare qualcosa per i minorenni in prigione.



 

In cosa consiste la vostra azione?

Stiamo combattendo perché questo non accada più nel frattempo abbiamo creato una scuola nel carcere, con professori, computer, attrezzature e per me la più grande soddisfazione è stata vedere un ragazzo che ha preso la maturità in carcere. Io non giudico mai, è Dio solo che può giudicare perché un bambino sia in prigione. Quando mi hanno detto che avevo vinto il premio, ho pensato ai ragazzi che aiuto. La mia “famiglia”, oggi, è aumentata, non è stretta al mio nucleo personale.

 

Che ne pensa del razzismo negli stadi?

Lo stadio è il riflesso della società. Chi viene a gridare “negro” lo fa per ignoranza, non ha avuto la possibilità di viaggiare e conoscere altre culture, altrimenti saprebbe che siamo bianchi, neri, rossi ma siamo uno. Perché io ho lo stesso sangue che hai tu, se mi ferisco sarà rosso come il tuo. È necessario aiutare queste persone a comprendere, ma certe posizioni non le può prendere il singolo giocatore. Spetta ai governanti, è una questione sociale e politica.

 

A lei è capitato di essere oggetto di insulti razzisti?

Solo una volta a Saragozza, in Spagna. Lì mi è capitato che mi facessero il verso della scimmia. Mi sono sempre chiesto perché queste persone comprano un biglietto per venire a vedere giocare una scimmia.

 

 

(Intervista a cura di Emanuela Citterio)