Franco Ballerini non ha vinto quanto altri suoi conterranei toscani. Bartoli e Bettini corsero più o meno negli stessi anni di Ballerini, chi prima e chi dopo, e vincevano tanto, tantissimo. Quei due, però, eran più corridori da Liegi, e lui quella corsa non l’amava. I riflettori della stampa italiana, poi, negli anni ’90 erano dedicati a Indurain, alla Mapei e a Pantani. Franco Ballerini di tutto questo sembrava disinteressarsi completamente. Aveva un chiodo fisso, aveva già un terreno di caccia tutto suo, e molto particolare. Non le aspre, ma asfaltate, Ardenne, e neppure i grandi giri; bensì il ruvido e piatto pavé tra Francia e Belgio. Stradacce, sentieri battuti 364 giorni all’anno da trattori e carretti. Ogni anno, però, per un giorno, quel pavé si trasforma in un dominio delle due ruote del pedale, nella corsa più folle del ciclismo contemporaneo, la Parigi-Roubaix: l’Enfer du Nord. A quelle latitudini la vittoria è un affare di francesi, di olandesi, di belgi, di gente che si allena nel vento e nella pioggia. Ballerini, da uomo qual è, vide in quella corsa la sua corsa, e vi si dedicò con passione sino all’anno del suo ritiro. Vinse la Roubaix nel 1995, e nel 1998. Ma fu anche secondo, nel 1993, fregato allo sprint nel velodromo di Roubaix dal francese Duclos-Lassalle. Non vinse nel 1994, eppure la sua fu una corsa eccezionale. Nel 1994 si corse la più entusiasmante Roubaix da quando chi scrive ha memoria, con Ballerini e Duclos-Lassalle a correre sul pavé fradicio con le ruote bucate, perché il cambio ruote chissà dov’era finito, e perché fermarsi sarebbe significato perdere di sicuro.



Le bici dei due sbattevano dappertutto, ma loro continuavano a pedalare, slittando. Solo quelle forature lo portarono fuori dalla lotta per la vittoria, eppure anche quell’anno Ballerini riuscì a piazzarsi nella sua corsa. Ballerini si sarebbe ritirato dal ciclismo nel 2001. Lo fece, ovviamente, a Roubaix, classificandosi 32°. Tutto il velodromo, stipato del pubblico francese e belga, lo accolse in piedi, applaudendolo fragorosamente. Lui aveva la maglietta della squadra sollevata per mostrare una scritta «Mercì Roubaix». Di quella cittadina belga era anche stato nominato cittadino onorario. Ballerini non vinse tantissimo da atleta, ma era uomo dal grande carisma, intelligente, e soprattutto umile. Chi meglio di lui poteva mettersi al volante della nazionale azzurra per i mondiali di ciclismo? Lo nominarono Commissario Tecnico della nazionale dopo l’istituzione Alfredo Martini, e da quel momento Ballerini divenne maledettamente vincente. 2002 Cipollini. Poi Bettini, 2006 e 2007. Ballan nel 2008. Nel 2004 Olimpiade su strada con Bettini. E tanti altri piazzamenti. Ballerini convinse tutti con le vittorie, ma soprattutto convinse tutti con strategie di corsa meravigliose. Per evitare problemi da primedonne metteva subito in chiaro già al momento delle convocazioni chi fosse il capitano. «Questo mondiale lo corriamo per Cipollini»; «Questo mondiale lo corriamo per Bettini». Niente più doppie punte, basta con le soluzioni ibride.



 

A volte questa decisione lo portò a perdere la corsa, come a Madrid. Ma in verità aveva ragione lui, perché anche se l’Italia non vinceva, comunque si piazzava davanti. E non si pensi che Ballerini metteva un capitano unico per correre sulla difensiva: non aveva affatto rinunciato alla doppia punta perché era pavido, ma perché aveva optato per le 4 punte. Da pazzi; eppure era così. Tanti campioni insieme, l’importante era dare a tutti ruoli ben chiari. Guai a sgarrare. Negli ultimi 9 anni la nazionale italiana si presentava sempre con mezza squadra di punte, e mezza di gregari, ognuno col suo compito, e gli azzurri sempre ad attaccare come matti. Ballerini aveva inventato un modo di correre entusiasmante: forse il mondiale di Varese, nel 2008, fu il suo capolavoro, quando Ballan e Cunego fecero primo e secondo, e Rebellin finì 4°. Tra olimpiade e mondiale 3 ori li conquistò Bettini. Proprio l’amico toscano Paolo Bettini, capitano di tante corse, lo introdusse a un nuovo modo di vivere la competizione e la velocità, lo introdusse al fascino del rally. Domenica 7 febbraio, nella sua Toscana, poco dopo le 10, questo intelligente e carismatico uomo, un quarantacinquenne padre di famiglia, CT della nazionale di ciclismo italiano, se n’è andato. Stava partecipando a un rally come navigatore; l’auto è sbattuta violentemente sul lato destro, e non c’è stato nulla da fare per rianimarlo. Anche quel velodromo nel freddo nord delle miniere e del pavé si unirebbe a noi, salutandolo con la semplicità che caratterizzò la sua vita: «Mercì Franco».



 

(Gigi Crema)