Come il soffitto chiodato di un racconto neogotico, lento e inarrestabile si abbassa sulla Sampdoria il verdetto di una retrocessione a lenta combustione, incominciata proprio nel momento di massima gloria, il 9 maggio dello scorso anno a Palermo, quando al 91’ l’attaccante rosanero Igor Budan colpì di testa a lato. Quell’errore consegnava ai blucerchiati il quarto posto, sciaguratamente reputato un capolinea anziché il presupposto di una rincorsa a gloria ulteriore. Di là dall’effimera euforia del momento, infatti, una società occhiutamente attenta al pareggio di bilancio come quella di Riccardo Garrone avrebbe classificato la qualificazione Champions nel novero dell’inaccaduto: ignorate le richieste premiali dei giocatori di talento, come le esigenze di riattrezzarsi in vista dell’arduo cimento europeo. Al playoff che la opponeva al Werder Brema, la Sampdoria si presentò senza acquisti e con un tecnico sì emergente come Di Carlo, provvisto però nel medagliere di una sola duplice salvezza nel Chievo. L’inevitabile eliminazione avvenne con modi avventurosi (gol decisivo al 92’ della gara di ritorno), tali da rendere giustificabile quella cautela dirigenziale che, a gioco lungo, ha portato la Sampdoria sul ciglio della serie B.
E dire che Garrone, nove anni fa, aveva raccolto la società blucerchiata in condizioni critiche – terzultima in B, a rischio fallimento per il diritto civile – per risollevarla rapidamente alle soglie di livelli raggiunti soltanto da Paolo Mantovani. In otto anni di A, un quarto, un quinto e un sesto posto, più una finale e una semifinale di Coppa Italia. Il perfetto risanamento finanziario e tecnico del primo biennio di presidenza, però, si è rapidamente incarnito sul crinale di una visione drasticamente economicistica, che ha dissuaso Garrone dal programmare la crescita tecnica: alle esigenze di bilancio sono stati via via sacrificati Diana, Pisano, Quagliarella, Maggio e Campagnaro fino a Pazzini e Marilungo; quanto a Cassano, la lite ottobrina con il presidente ha solo accelerato i tempi di un congedo che la dirigenza aveva giudicato inevitabile in ragione del peso del contratto dell’attuale milanista.
Per non parlare delle occasioni perdute nel tempo, a causa della refrattarietà a scommettere sulla valorizzazione dei giocatori: da Hamsik a Thiago Motta, da Ranocchia a Matri, da Kucka fino a Iturbe, assai lungo è l’elenco degli elementi individuati ancora anonimi o quasi dagli osservatori blucerchiati, ma scartati perché considerati troppo onerosi dalla proprietà. L’attenzione prioritaria ai conti commerciali ha fatto perdere di vista ai dirigenti doriani – eccettuato Gasparin, succeduto a Marotta ma risoltosi a lasciare dopo soli sei mesi proprio per dissapori prospettici con la proprietà – una verità elementare: in una società di calcio senza giocatori si fa poca strada. Il “licenziamento” di Cassano, che sgravava la società di oltre 14 milioni di stipendio lordo da versare al barese, e le cessioni di Pazzini e Marilungo (17 milioni e Biabiany) hanno più che compensato il passivo dell’ultimo esercizio, definito a 11,5 milioni: ma spingono la Sampdoria verso una caduta in B che sugli equilibri economici avrebbe un peso negativo – tra diritti tv, abbonamenti, biglietti e sponsorizzazioni – attorno ai 50 milioni. Evitare la retrocessione avrebbe del prodigioso; quale che sia l’esito del torneo, Garrone e i suoi figli saranno chiamati a programmare una ricostruzione difficilmente attuabile con la semplice riconvocazione dei giovani in prestito (come Soriano, Signori, Eramo), Occorreranno investimenti significativi, per evitare nella migliore delle ipotesi un’altra stagione tribolata, nella peggiore per tornare subito in A.
Il calcio ha una sua logica: con Cassano e Pazzini, nelle prime 8 partite, la Sampdoria marciava a una media che a fine stagione sarebbe valsa 52 punti e un virtuale 8º posto. Estromesso il barese, nelle successive 12 partite la flessione è stata minima, ma dalla cessione di Pazzini la media della squadra è crollata a 0,42 punti/gara, appena 16 in proiezione stagionale. Per questo le colpe di Di Carlo, come quelle di Cavasin arrivato a giochi forse ormai quasi fatti, sono marginali: la forza della Sampdoria stava nel genio, affiatamento e imprevedibilità dei due attaccanti, così come nel talento di Storari che non si era fatto abbastanza per trattenere. Senza i tre artefici del quarto posto, la squadra è implosa. E ora affida al finale di torneo il suo destino: ma aver fatto 6 punti nelle prime 14 gare del girone di ritorno rende assai improbabile coglierne 10 nelle 5 residue. I miracoli possono darsi; ma sarebbe stato meglio non mettersi nelle condizioni di fidarvi.