Sugli Champs Elyseés parigini vince il Tour de France l’australiano Cadel Evans. E questa sarebbe, di per sè, una notizia da primato, perché dopo gli exploit degli americani negli anni passati, anche i “canguri” entrano nella storia del ciclismo mondiale. Ma siamo quasi certi che, fino a qualche anno fa, anche per gli appassionati delle corse a tappe, sarebbe stata una notizia che sarebbe passata sotto traccia. 



Invece quest’anno, non c’è solo l’impresa dell’”aussie” trentaquattrenne, ma il ritorno di un ciclismo epico che quasi tutti avevano dimenticato. Quello che ha stupito, in quest’ultimo week end, è il cosiddetto share di telespettatori per le fasi conclusive della “grande boucle”. Potevi telefonare a un amico e ti sentivi rispondere che stava guardando l’orgoglio dello spagnolo Alberto Contador scatenato, e sempre all’attacco, nella tappa che terminava sull’Alpe d’Huez.



Così, come il giorno prima, potevi assistere a una fuga di sessanta chilometri del lussemburghese Andy Schleck insieme al fratello Frank. Quasi un’impresa di famiglia. E poi, prima della conclusione all’ Arc de Triomphe, la tappa a cronometro del  giorno, dove Cadel Evans conquista la maglia gialla con la cadenza di una  pedalata compatta, degna di un grande cronoman. Diciamo la verità, in questi giorni abbiamo riscoperto il ciclismo, quello che  solo Pantani e Gimondi ci avevano fatto rivivere dopo la storia, sempre epica, di Bartali e Coppi. 

Ci sono venuti in mente gli articoli di Gianni Brera. Non solo grande competente e scrittore di calcio, ma appassionato dell’altro grande sport popolar-nazionale (ricordato anche nelle canzoni), il ciclismo, la “religione”  della fatica, del coraggio, della grinta, del carattere. Al di là della vittoria e della sconfitta, della classifica finale, questo  Tour è stato uno spot meraviglioso per uno sport che è stato prima rovinato e poi dimenticato.



Gianni Brera non perdeva mai un Tour. Le sue cronache si riducevano all’osso, quando le tappe erano di “trasferimento”, e si dilungavano in descrizioni storiche di castelli o di ristoranti famosi, ma quelle cronache si coloravano di toni omerici quando si entrava nella grande bagarre degli  scatti in montagna, sui Pirenei e sulle Alpi, oppure nelle fughe solitarie dei fratelli francesi Lazarides.

In quei tempi, carichi di nostalgia, il Tour era l’estate per antonomasia, il mese di luglio aspettato tutto l’anno. Si correva il Tour con squadre nazionali e quindi la passione era ancora più forte. Poi c’è chi ha pensato di rovinare tutto. Le autorità (che non corrono mai per strada) del ciclismo hanno pensato di applicare una “questione morale” e, con tutta la sua virulenza, è esplosa la questione del doping.

Più pudicamente, Brera parlava di chi “beveva”, non solo nel ciclismo, ma anche nel calcio e nell’atletica. Brera non difendeva certo il doping, ma invitava a usare il buon senso, che purtroppo si cominciava a perdere e ora si è  completamente perduto. I criteri e i parametri per giudicare i “dopati” sono  diventati ossessivi, talmente fiscali da essere irritanti. Sarebbe stato  necessario riclassificarli con un minimo di buon senso, punendo severamente quelli che sbracavano letteralmente, invitando tutti a un senso di responsabilità.

Si è battuta invece la strada punitiva e l’ossessione di parametri spesso  assurdi. Felice Gimondi non poteva neppure prendere il Remeflin, un farmaco che gli avrebbe consentito una più facile respirazione e così dovette inchinarsi nella sua carriera a Eddy Merckx, che aveva nella sua équipe conoscitori ben più raffinati di “materiale” dopante. Brera sulla questione dei parametri del doping fu sempre scettico.

Quando  tolsero la medaglia olimpica dei 100 metri al canadese Ben Jonhson, commentò ironicamente: “Se anche prendo qualche cosa di adiuvante, io di certo non lo  batto”. Ma a parte questo, il ciclismo è stato letteralmente investito dalla questione doping per una responsabilità generale. Tuttavia è impressionante come ora il ciclismo rinasca e ritorni ad appassionare la grande parte degli sportivi. La corsa è sempre appassionante e quando arriva la battaglia che i francesi  chiamano bagarre, vedi i tratti più appassionanti di una storia umana.

Lo sport non è solo uno spettacolo per esteti (questo Brera lo chiamava qualunquismo), ma disciplina di vita, che aiuta a preparati alla vita, guardandoti dentro, misurando il tuo coraggio, affrontando le prime prove drammatiche della vita,  formandoti un carattere. In questi giorni, Cadel Evans, Alberto Contador e i fratelli Schleck ci hanno fatto rivivere queste sensazioni sulle salite e nelle discese dei Pirenei e delle Alpi. Speriamo che in questi “tempi di regole”  non  arrivi qualche buontempone a inventare una nuova regola. Che so ? Magari la  cintura di sicurezza sulle biciclette.