In materie come queste, piuttosto originali e stravaganti come quella del cosiddetto “sciopero” dei calciatori, si rischia di sbandare nel qualunquismo, stilando giudizi a vanvera. E’ possibile che Damiano Tommasi, il capo del sindacato dei giocatori, sappia spiegare tutte le sofferenze e i disagi di molti giocatori di calcio di Serie A, tra mancati pagamenti e trasferimenti con forme contrattuali che richiederebbero una nuova giurisprudenza sul lavoro. E’ possibile che i presidenti di club, dopo gestioni abbastanza spericolate, vogliano riprendersi il pallino (non il pallone) in mano, dopo quindici anni di abbondante autonomia dei giocatori e dei loro procuratori. E’ possibile che siano troppi i calciatori tesserati nella Serie A italiana.
E’ possibile tutto e il contrario di tutto. Ma l’impressione è che ci sia innanzitutto una confusione lessicale in questo “sciopero”. I calciatori si dichiarano dei professionisti, ma poi risultano dei dipendenti che godono dello stato configurato dallo Statuto dei lavoratori, con stipendi (molti) degni di un super-manager di una multinazionale. Godono pure di stock option e bonus in base ai risultati.
Poi ci sono alcuni presidenti che sembrano, in più di un’occasione, delle persone “fuori di testa” in cerca di popolarità o di protagonismo scomposto. Il calcio è un grande gioco coinvolgente, un grande business, un enorme spettacolo popolare che supera le barriere delle classi sociali. Ma fondamentalmente resta un gioco.
Meglio non dimenticarlo. Ora, sia il sindacalista Tommasi, sia i rappresentanti della controparte “padronale” sono persone che leggono probabilmente anche i giornali non sportivi, almeno i titoli di prima pagina. O se non altro sentono le notizie dalle varie reti televisive.
E’ presumibile cha sappiano che il mondo, dal 2008, sta attraversando una fase di non crescita, di recessione, di grave crisi di cui non si vede ancora la via d’uscita.
Questo è un punto che già dovrebbe far riflettere anche chi, magari momentaneamente non pagato, può poi rivalersi con avvocati e procuratori. Mentre per lavoratori, con stipendi sui mille-millecinquecento euro mensili, chi è collocato in cassa integrazione, chi viene prepensionato, oppure licenziato, può solo andare in piazza a manifestare.
Forse un minimo di senso di responsabilità, già per questa considerazione, bisognava farlo. Ma c’è poi una legge sociale, non scritta, che alla fine viene sempre a galla. E’ giusto che uno più bravo guadagni di più. E’ giusto che chi muove tanti quattrini, debba guadagnare di più di chi esercita altre masioni. Ma in che percentuale deve essere contenuta questa differenza? Uno a cinquanta? Uno a cento? Se la diferenza sballa troppo, alla fine tutta l’impalcatura sociale salta. E’ sempre e solo questione di tempo.



La carriera di un calciatore è breve. Ma il meccanismo dell’accumulazione di richezza di un calciatore non è neppure paragonabile a quello di un dipendente d’azienda. E allora questo sciopero come non fa a non diventare una cosa grottesca, patetica, risibile? 
Dopo Calciopoli, Scommettopoli, risse sulle prescrizioni e sugli scudetti cartonati, ci mancava solo lo “sciopero”. Il meno che si possa dire è che il mondo pallonaro (dirigenti della Fedrazione in testa) sia decisamente andato nel “pallone”.

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