“Tacopina uno di noi: grazie Joe”. E’ uno degli striscioni che sono stati dedicati a Joseph Tacopina, vice presidente della Roma, da quando gli “americani” hanno preso possesso della società giallorossa, anzi “yellow and reds” come dicono loro. Tacopina è uno dei maggiori avvocati newyorchesi, specializzato in casi criminali di grande rilevanza, ma è soprattutto un grandissimo tifoso della Roma. Ha concesso una intervista esclusiva a IlSussidiario.net nella quale, fra le tante cose, ha raccontato simpatici aneddoti. “La famiglia di mio padre proveniva da Montemario a Roma, ho ancora dei parenti là. Ma il mio vero nome non è Tacopina, è Jacopina”. Joe, come vuole essere chiamato dimostrando tutta la disinvoltura tipica degli americani, ride raccontando di quando suo padre si presentò alla dogana americana: “L’agente scrisse per sbaglio Tacopina invece di Jacopina sui documenti. Mio padre, che non parlava inglese, si arrabbiò e protestò: guardi che c’è un errore. Ma l’agente non volle sentire nulla e lo mandò via dicendo che era tutto a posto. Così adesso parte della famiglia si chiama Tacopina e l’altra in Italia Jacopina”. Il suo pronostico per la partita Italia – Stati Uniti? Una piccola sorpresa.
Un parere sulla partita tra Italia e Stati Uniti, che importanza sportiva ha secondo lei?
Ha molta importanza, perché ogni volta che gli Stati Uniti giocano contro l’Italia, questo fa automaticamente alzare il profilo del gioco del calcio in America. E’ una opportunità per dimostrare che si può giocare contro i migliori del mondo. Il gioco del calcio negli Stati Uniti è diventato, per quanto riguarda i giovani, lo sport numero uno, ancora più popolare di baseball, basket e football. Ogni giorno diventa più importante e più seguito.
E’ un po’ una sorpresa per noi italiani sapere questo…
Non dimenticherò mai quando mi recai in Germania con i miei tre figli per vedere le partite degli Azzurri alla Coppa del mondo del 2006. Andammo anche a vedere gli allenamenti dell’Italia e ricordo quando Marcello Lippi, dopo aver vinto la finale, mi disse che la partita più difficile per l’Italia era stata quella contro gli Stati Uniti. Credo che quella partita abbia dimostrato che la nazionale poteva giocare davvero ad alti livelli.
Qual è il suo pronostico per la partita di stasera?
Non faccio pronostici ma dico che abbiamo la squadra migliore…
Gli Stati Uniti?
No. Quando dico “noi” intendo gli Azzurri, perché io mi considero per prima cosa un italiano. La nazionale italiana dei tempi di Paolo Rossi fu la la squadra che imparai ad amare per prima, a parte la Roma naturalmente. Sono convinto che l’attuale nazionale italiana sia una formazione giovane e forte, al contrario della squadra che giocò gli ultimi Mondiali, che aveva evidentemente fatto il suo tempo.
Che cosa trova di positivo in modo particolare in questa squadra?
Abbiamo un’ottima difesa, un buon centrocampo e finalmente stiamo sviluppando anche degli ottimi attaccanti, credo che quello fosse il problema principale dell’Italia negli ultimi anni.
Qualche nome?
Penso a Matri, a Giovinco, e poi mi piace soprattutto Borini. Ovviamente sono un suo fan perché gioca nella mia squadra, la Roma, ma comunque lo considero un giovane eccezionale.
A proposito di calcio americano e italiano, secondo lei la differenza è dal punto di vista dell’approccio sportivo o è una differenza in termini di popolarità di massa?
Ritengo che ci sia una grande differenza in termini di approccio sul campo. Gli americani sono certamente giocatori di talento, su questo non c’è dubbio. Quello che non hanno è un buon sistema di allenatori capaci, un sistema che capisca le sottigliezze del tipo di gioco. Quando osservi giocare gli italiani, o qualunque grande squadra europea, è come un’arte. Il modo con cui gli europei controllano e gestiscono la palla è diverso. Lo stile americano è ancora grezzo, più fisico e aggressivo. Ma non è uno stile artistico come quello che hanno i giocatori italiani. In definitiva, non è bello guardare una partita americana come lo è guardare una europea. Questa è la differenza fondamentale.
Il calcio italiano secondo lei è ancora a questi livelli?
I giocatori italiani sono ancora i migliori al mondo. Per gli americani c’è ancora molta strada da fare. A noi manca il giusto training.
Che cosa ne pensa di quei giocatori come David Beckham che vanno a giocare in America a fine carriera? Sono utili al gioco americano o si tratta solo di spettacolo?
Sono importanti per un solo motivo: alzano il livello di interesse nei confronti del calcio. David Beckham non è uno dei giocatori migliori del mondo, è forte, ma non è certo Andrea Pirlo. Ma siccome è Beckham e fa campagne pubblicitarie sugli indumenti intimi e tutto il resto, il livello di interesse si alza. La Major Leauge Soccer americana sta facendo un buon lavoro per alzare il livello del gioco, ma non è certo la Serie A italiana. Potrebbe essere equiparata alla Serie C. E’ difficile fare paragoni, ma comunque il fatto che quel tipo di giocatori venga in America è comunque una buona cosa, aiutano il pubblico a prendere consapevolezza.
Ci sono giocatori americani che suggerirebbe a qualche club italiano?
Ci sono dei buoni giocatori nella squadra nazionale americana. Dal punto di vista storico i nostri migliori giocatori non hanno fatto molto bene all’estero. Penso a Donovan o a Dempsey ad esempio. Ci sono attualmente dei bravi giocatori, ma non hanno ancora sviluppato il talento giusto. Ma credo che il momento perché sbocci in America il vero talento stia per arrivare. In Italia poi c’è già Michael Bradley, gioca nel Chievo, è molto bravo.
Che cosa pensa che la cultura americana e il vostro spirito imprenditoriale possono dare al nostro calcio?
Il mio impegno negli ultimi cinque o sei anni è stato quello di portare gli americani verso il calcio italiano, il motivo è dato dalla mia grande passione per il calcio italiano, per l’Italia e per la città di Roma. Credo ci sia una opportunità incredibile.
Quale?
Non c’è alcun altro posto al mondo dove il calcio sia importante come in l’Italia. Ci sono altri Paesi, ad esempio l’Inghilterra, dove i fan sono molto appassionati, ma non credo esistano Paesi dove una partita di calcio significhi così tanto come l’Italia. Fa parte della fibra del tessuto popolare. Il problema italiano riguarda gli stadi, che sono piuttosto vecchi e non accoglienti. In America andare allo stadio è un evento di famiglia, ci si va a pranzo, si compra il merchandise, non è solo andare a vedere la partita.
L’Italia è ancora lontana anni luce…
Diciamo di sì. Purtroppo l’approccio italiano al sistema sportivo dal punto di vista del business mostra ancora tanti limiti. Ciò che importa in Italia sono tre cose: i media, il giorno della partita e gli incassi commerciali. In Italia il 75% dello spazio è coperto dai media, poi c’è molta importanza per il giorno della partita, ma molto poco riscontro commerciale. Non è un bilanciamento sano, questo, e molte squadre ci perdono dei soldi.
Come cambiare questa impostazione?
Il discorso non è far guadagnare i proprietari dei club, ma con l’attuale impostazione le squadre sono in pericolo e questo colpisce anche i risultati sportivi. C’è da cambiare parecchio in Italia da questo punto di vista.
Ci dica qualcosa del “Progetto Roma”: come verrà presentato negli Stati Uniti?
Tutto quello che ho detto prima, ci sarà parecchio lavoro da fare. L’azienda di Jim Pallotta (socio forte dell’attuale presidente della Roma, Thomas DiBendetto, ndr) è la migliore nel suo campo. Stanno facendo ottime cose. Per la prossima estate ci sarà una tournée della Roma negli Stati Uniti con tre incontri di alto livello. Le scuole calcio faranno parte di questo progetto. Stiamo studiando di aprire delle università del calcio chiamate “A.S. Roma” e “North America” che saranno strettamente legate fra di loro. Non solo per il nome, ma con uno sforzo lavorativo comune.
(Paolo Vites)