A soli 26 anni si è spento, dopo essere stato colto da un malore in campo. Piermario Morosini, centrocampista del Livorno, stava disputando un match contro il Pescara quando, d’un tratto, si è accasciato. Ha tentato di rialzarsi, ma non ce l’ha fatta. Ed è sprofondato con la faccia nel terreno (clicca qui per il video). I medici hanno provato a rianimarlo con un defibrillatore. Poi, l’ambulanza lo ha portato in ospedale, dove è stato messo in coma farmacologico e gli è stato applicato un pacemaker. Ma non c’è stato nulla da fare. Poco dopo le 17, è morto. Cristina Giannattasio, direttore della Cardiologia IV – Diagnostica e Riabilitativa dell’ A.O. Ospedale Niguarda Ca’ Granda, ipotizza per ilSussidiario.net cosa possa essere accaduto. «Colpisce che nell’arco di poche settimane sia accaduto almeno un altro caso analogo», afferma riferendosi a  Fabrice Muamba. Cosa significa? «Benché nel precedente episodio non ci siamo trovati di fronte ad un decesso, si è trattato pur sempre di un’importante problematica di natura cardiaca nel corso di una prestazione agonistica. E’presumibile, quindi, che nonostante la stretta sorveglianza sanitaria cui sono sottoposti gli atleti d’elite, non sempre siano fatte tutte le indagini necessarie». Sia ben chiaro: «Ovviamente, non è colpa di nessuno. Il problema è che può trattarsi di patologie estremamente rare, di carattere genetico, in grado di sviluppare aritmicità o cardiopatie ipertrofiche. Considerato il fatto che, con ogni probabilità, è stato sottoposto a tutti i dovuti accertamenti clinici, tali patologie, oltre ad essere decisamente poco frequenti, son anche difficilmente prevedibili». Non solo: «Sovente non danno segno della loro esistenza fino al loro manifestarsi. E’ possibile che i soggetti con queste patologie non abbiano mai avuto sintomi e siano stati sani per tutta la vita». Non è un semplice infarto, quindi, dal quale, molto spesso, se ne esce vivi. «E’ consuetudine, al di là dell’ambito strettamente medico, chiamare con il termine infarto tutto ciò che dà esito a morte per patologia cardiaca ma che infarto, in realtà, non è. Ad esempio, il fatto che a Morosini sia stato applicato un pacemaker lascia sospettare una patologia aritmogena». Infatti, è arrivato in ospedale con una fibrillazione ventricolare. «Si tratta – continua la dottoressa – di un’assoluta irregolarità del battito cardiaco. Mentre, di norma, l’impulso parte dell’atrio e, con regolarità, giunge a tutte le fibre del cuore, in questi casi prende il sopravvento un forte impulso anomalo che fa battere il cuore ad una forte velocità, emodinamicamente insufficiente. Ovvero, non arriva il sangue in periferia». Il fatto che al momento del malore stesse correndo non è necessariamente determinante: «se ci concentriamo sull’ipotesi di una problematica aritmica ci sono dei fattori che possono scatenarla. Ma può evolversi anche a risposo». 



Resta da capire quanto sia possibile, anche per i normali cittadini, prevenire simili eventualità. «La ricerca sta avanzando sul fronte delle analisi genetiche per individuare con sempre maggiore precisione la presenza di tali patologie. Il problema sono i costi. Attualmente, sono estremamente elevati. Le patologie rare e di carattere genetico comportano, infatti, strumentazioni e macchinari estremamente dispendiosi che rendono purtroppo impensabile, ad oggi, far sì che esami di questo genere diventino di routine» 

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