Il mondo del calcio piange la morte di Piermario Morosini, centrocampista del Livorno classe 1986 morto ieri in campo durante la partita contro il Pescara, e tutti sono rimasti colpiti dalla storia di una famiglia profondamente segnata dal dolore: nel 2001 era morta la mamma Camilla, e a seguire anche la morte del padre Aldo. A questo si aggiunga il suicidio di un fratello disabile e la presenza di una sorella anch’essa disabile (per la quale oggi si è già aperta una gara di solidarietà). Eppure queste tragedie non avevano scalfito il suo atteggiamento positivo e solare verso la vita: ecco infatti il commosso ricordo di Eugenio Perico, tecnico delle giovanili dell’Atalanta, società nella quale Piermario – bergamasco – era cresciuto. Intervista in esclusiva per IlSussidiario.net.



Perico, conosceva bene Morosini?

Non sono mai stato il suo allenatore, ma lo conoscevo bene, perché comunque tra gli allenatori del settore giovanile ci coordiniamo tutti, e poi mio figlio ha solo due anni più di lui. Inoltre abbiamo vissuto alcuni momenti molto significativi insieme, come il pellegrinaggio a Roma che facemmo in occasione dell’Anno Santo. C’erano anche sua mamma e mia moglie.



Come lo ricorda?

Quando muore una persona si scivola spesso nella retorica; ma devo dire che lui era davvero un ragazzo sereno e solare, sempre felice di giocare a calcio. Forse questo era il suo modo di affrontare e superare una situazione familiare difficilissima, che però non lo rendeva mai scontroso. Aveva sempre tanta voglia di fare bene, era molto maturo per la sua età e sempre ottimista. Anche in campo tutto questo si notava molto bene.

Come era dunque il giovane calciatore Morosini?

Era un centrocampista centrale sempre pronto ad aiutare i compagni, un giocatore generoso che dava sempre il buon esempio in campo e con il suo comportamento diventava un modello per i suoi stessi compagni.



Cosa era quindi il calcio per lui, viste anche le difficoltà familiari? Che valore gli dava?

Il calcio era il suo momento di felicità e di serenità. Quando giocava o si allenava era sempre positivo, e sapeva anche trasmettere agli altri questa positività. Come dicevo, era sempre solare e ottimista, e sapeva vedere il buono anche nelle tante difficoltà che doveva affrontare.

Ha dei ricordi particolari di quegli anni?

Poco tempo dopo quel pellegrinaggio morì sua mamma, e ricordo che quel fatto impressionò molto anche me e mia moglie. Lui era molto maturo e cercò anche per quanto possibile di sostituire i suoi genitori con i suoi fratelli. Purtroppo il fratello non aveva la stessa forza e un giorno si suicidò gettandosi dal balcone di casa. Eppure lui era sempre pronto a dare il meglio e ad affrontare la vita in modo positivo.

Un fatto impressionante nella sua situazione. Lei come se lo spiega?

Secondo me questa sua positività, questo suo ottimismo erano davvero una grazia, un dono che Piermario aveva e che gli dava una grande forza. In ogni cosa che faceva metteva tutto se stesso per farla nel modo migliore possibile; e se non riusciva ad ottenere quello che voleva, almeno non aveva rimpianti. Anche in questo caso, questo valeva pure sul campo da calcio: infatti nonostante la sua carriera avesse passato diverse fasi, fin da quando a 18 anni lo prese l’Udinese, ancora oggi aveva margini di miglioramento.

Che insegnamento può lasciarci dunque Morosini?

Prima di tutto è un insegnamento a tutti quelli che vivono delle difficoltà nella loro vita. Ma credo di poter dire che sia un insegnamento anche per tutto il mondo dello sport, che forse è andato oltre i suoi limiti negli ultimi anni, e nel quale lo spettacolo ha sempre più il sopravvento sui valori.

E la sua morte che senso può avere?

Oggi è di nuovo insieme a sua mamma, a suo papà e a suo fratello: per me questa è una cosa che dà grande serenità.

 

(Mauro Mantegazza)

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