Curva Nord chiusa all’Olimpico: la Lazio paga cori razzisti nel corso della partita contro il Legia Varsavia, e affronterà così l’Apollon Limassol senza il sostegno dei suoi tifosi più “caldi”. Porte chiusue a San Siro: il Giudice Sportivo ha così punito alcuni cori di discriminazione territoriale uditi durante Milan-Napoli, contro l’Udinese lo stadio dei rossoneri rimarrà inaccessibile al pubblico. Adriano Galliani si è già fatto sentire annunciando il ricorso: “I cori? Li avranno sentiti al bagno. E poi solo in Italia c’è una legge simile”. E’ passato del tempo da quando Kevin Prince Boateng forzò l’interruzione dell’amichevole tra Milan e Pro Patria: era inizio gennaio, il ghanese prese il pallone e lo scagliò verso la tribuna, esasperato per alcuni cori e insulti ricevuti. Si fermò tutto: giocatori negli spogliatoi, intervento del sindaco di Busto Arsizio, la nascita di una commissione contro episodi simili, Boateng portavoce della lotta contro il razzismo e invitato all’Onu a tenere un discorso sul tema. Nove mesi dopo, succede altro: i tifosi del Napoli, cioè i destinatari delle presunte ingiurie rossonere, espongono uno striscione in curva B. Napoli colera: e adesso, chiudeteci la curva!”. Un chiaro segnale, a chi di competenza, sull’inadeguatezza del provvedimento. In più Galliani, che si era fatto portavoce della battaglia contro questo fenomeno, parla ora di una legge “da cambiare”. Insomma, chiariamo per non fare confusione: episodi simili andrebbero debellati, sempre e comunque. Il punto è: davvero chiudere una curva o uno stadio risolvono il problema? Ha ragione Raffaele Auriemmia, intervenuto ieri sera negli studi Mediaset: “Il calcio fa da cassa di risonanza, perciò si agisce in questo mondo perchè non lo si può fare in altri”. Una dichiarazione se vogliamo semplice, ma che in realtà espone tutto il problema: quando si può parlare di discriminazione, e quando invece si tratta di “semplici” sfottò, magari un po’ coloriti? Perchè certi comportamenti ormai classici non vengono mai puniti, e altri sì? Esempio: allo Juventus Stadium, come in altri posti, è in voga apostrofare il portiere avversario ogni qualvolta si accinga al rinvio, e non è certo un complimento quello gridato dai tifosi. La verità è che non è cambiato nulla: trent’anni fa, il Napoli andava a giocare a Verona, o a Bergamo, e i tifosi avversari esponevano striscioni con la scritta “Benvenuti in Italia”, e intonavano cori sul profumo del mare o della città. Cosa succedeva allora? Niente: Maradona e Careca entravano in campo, segnavano due gol a testa e fine del discorso, con tanti saluti a curve chiuse e stadi sbarrati. E ancora – notizia attuale, visto il recente ritiro di Mariano Rivera che era l’ultimo a portare il numero 42, ritirato in tutta la MLB: Jackie Robinson, il primo nero nella storia degli sport professionistici americani, nel corso della sua carriera è stato oggetto di ignominiosi comportamenti razzisti. A lui era addirittura proibito alloggiare nello stesso albergo dei compagni quando era in trasferta, nè poteva entrare negli stessi ristoranti. Allora sì che il razzismo era una cosa seria, ma nessuno ha mai chiuso gli stadi perchè Robinson potesse integrarsi in fretta. Certo ci è voluto un po’, ma alla fine il vincitore è stato lui. Ora, invece, si è quasi più attenti al mormorio dalle tribune che alle azioni in campo; con il rischio che volendo debellare il problema si rischi di aprirne un altro, cioè quello di colpire a caso nel mucchio. Oggi paga il Milan (in attesa del ricorso), domani potrebbe toccare a un altro; e magari per un coro gridato da dieci persone su cinquantamila si rischia di danneggiare la squadra, che c’entra poco. Perciò, due domande. La prima: siamo davvero sicuri che si tratti di razzismo e non, come ha ricordato Auriemma, di “cori da stadio” che poca attinenza hanno con i veri fenomeni di discriminazione? E ancora: perchè un “buu” a un giocatore di colore dovrebbe essere più infamante e umiliante dell’epiteto rivolto alla madre di un calciatore bianco? Che del problema si parli, è giusto e buono; che si cerchi di fermarlo, anche; che si adotti la scorciatoia, forse no. 



(Claudio Franceschini)

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