Nell’ultima pubblicazione del Brand Finance Football Brands relativa al 2012 è stata inserita una speciale classifica, la quale ordina i brand delle società calcistiche utilizzando il Royalty relief method. Questa speciale classifica ci testimonia nuovamente la leadership assoluta del Manchester United, tallonato da realtà in forte espansione come Bayern Munchen, Real Madrid e Barcellona. Non se la passano bene invece le italiane: il Milan pur riuscendo a restare nella top ten, perde un paio posizioni (nel 2011 era settima), l’Inter è invece al tredicesimo posto (nel 2011 era ottava) e infine troviamo la Juventus che occupa un deludente 16esimo posto dietro a società piuttosto distanti per valori tecnici dalla Vecchia Signora come Ajax, Tottenham Hotspur e Olympique de Marseille. E il marchio Serie A? Il nostro massimo campionato è il quarto marchio di lega di calcio nel mondo dopo Premier League (il cui marchio vale quasi 4 volte quello della Serie A…), Bundesliga e Liga spagnola. In un sistema dove l’aspetto tecnico è ormai notevolmente dipendente dagli andamenti economico-commerciali dei vari club, le società italiane così come le istituzioni hanno ben chiaro che non è più possibile trascurare l’aspetto del marketing sportivo. Per avere più delucidazioni su questo tema Ilsussidiario.net ha intervistato in esclusiva Bruno Sparandeo, general manager e sport marketing specialist dell’agenzia Yolo Sport Marketing.



Dott. Sparandeo, nell’ultima pubblicazione del Brand Finance Football Brands abbiamo visto come i maggiori club italiani trovino ancora difficoltà nell’esporre il proprio marchio in campo internazionale. Come se lo spiega? Il mio punto di vista fin da quando mi sono appassionato di marketing sportivo è stato sempre lo stesso: qui in Italia manca un’educazione alla domanda.



Cioè? Secondo me c’è un problema di cultura. Il mercato come ben sappiamo è il luogo in cui avviene l’incontro tra domanda e offerta. Il vero problema secondo me è che in Italia il tifoso ha una mentalità molto particolare che lo differenzia dagli altri tifosi del mondo e a risentirne è la domanda.

Si spieghi meglio… Il tifoso italiano ha una cultura diversa. Le parlo del mio contesto: qui noi dobbiamo combattere con un mercato del falso molto diffuso. A titolo esplicativo mi piace ricordare l’ottimo lavoro dell’ufficio marketing del Napoli Calcio che ha lanciato più di 100 prodotti marchiati ufficialmente Napoli Calcio così da spezzare il trend di una realtà come quella napoletana. Ma questo è stato possibile solo grazie alla cultura, appresa nei lunghi anni di lavoro negli Stati Uniti, del presidente De Laurentiis.



Mentre all’estero le cose vanno diversamente? Spiace ammetterlo ma è così. Basti pensare che il tifoso medio inglese spende all’anno circa 800 sterline in prodotti ufficiali della propria squadra. Non le so dire quanto spende un sostenitore italiano ma sicuramente non arriviamo a queste cifre.

Perchè secondo lei? A mio avviso c’è un legame diverso tra tifoso e società: in Italia il tifoso si sente padrone della propria società e del marchio, mentre in Inghilterra il supporter si lascia trasportare anche dalle proposte economiche che gli arrivano.

La via dell’internazionalizzazione sembra ormai quasi obbligata per ogni brand in cerca di valorizzazione…

Sì. L’esempio del Manchester United descrive bene una strategia vincente in tal senso: il club più famoso del mondo sta avendo un’ottima esposizione in Malesia. Il club inglese approfittando della passione per le scommesse della popolazione malesiana ha diffuso il proprio brand con campagne pubblicitarie e promozioni ad hoc trovando un’area molto ricettiva rispetto al loro obiettivo.

Un mezzo molto utile per valorizzare il brand potrebbe essere anche sfruttare al massimo l’immagine dei propri calciatori? Non sono pochi i club che cercano di sfruttare l’immagine di un calciatore per avere maggiore visibilità in campo internazionale. L’ultimo esempio è quello di Neymar: il Barcellona ha recuperato in poco tempo il costo d’acquisto del suo cartellino vendendo le divise ufficiali con il nome del giocatore. Il lavoro di comunicazione che avviene attorno a un personaggio importante dovrebbe essere importante per un club.

E legarsi in sponsorship con brand privati che agiscono in mercati diversi? Quanto può essere importante tenendo a mente l’obbiettivo di valorizzazione del brand? È soprattutto un segnale. Quando una società come ad esempio la Juventus riesce a legarsi con la Samsung vuol dire che è una società con respiro internazionale.

Senza dimenticare l’Adidas… Appunto. I bianconeri su questo sono l’esempio per ogni club in Italia. Sono riusciti ad attirare colossi imprenditoriali come Samsung e Adidas avendo la possibilità di portare nelle nostre parti soldi importanti.

Le società dovrebbero quindi cercare di puntare con più convinzione su politiche di merchandising. Insomma rinforzando l’offerta si potrebbe sollecitare la domanda… Assolutamente. Parliamoci chiaro: in Italia ci siamo per troppo tempo “accomodati” sugli introiti derivanti dai diritti televisivi i quali costituiscono in media l’80% circa delle entrate di un club nostrano. Ora se si vuole essere competitivi a livello internazionale occorre rivedere anche le politiche di marketing.

 (Francesco Davide Zaza)