Nel torneo delle sorprese, la finale “giusta” da tabellone. Wimbledon 2013 chiuderà il suo singolare maschile con l’ultimo atto che tutti si aspettavano: Djokovic-Murray. Da una parte il numero uno del tabellone, il serbo che ha perso oggi i primi set del suo torneo. Dall’altra lo scozzese, il giocatore di casa, quello che ha tutto un Regno sulle spalle e che domenica, per il secondo anno consecutivo, si giocherà la coppa dei Championships con il campo centrale che gli ricorderà di come Fred Perry abbia vinto 77 anni fa, di come sia stato l’ultimo britannico, di come Andy sia la speranza di tutti. Che colpa ne ha lui, di tre quarti di secolo di attesa? Nessuna, eppure in campo sembra che senta il momento, senta la storia, capisca di dovere qualcosa a qualcuno; anche stasera, per come ha battuto l’ormai non più sorpresa Jerzy Janowicz (6-7, 6-4, 6-4, 6-3), si è visto ampiamente che lo scozzese, numero due del mondo e del tabellone, gioca come se davvero avesse lo spirito di Fred che aleggia su di lui, non solo la statua che si può ammirare all’All England Club. Onore a lui, perchè la partita era cominciata con un tie break perso , Janowicz che volava sulle ali dell’entusiasmo e non dava respiro a Murray che non riusciva a strappargli il servizio nonostante il polacco fosse ben lontano dalle medie tenute contro Kubot due giorni fa (chiuderà con 9 ace, cioè meno di un terzo rispetto al quarto di finale). Lo scozzese reagiva da campione e vinceva quasi in scioltezza il secondo set; per modo di dire, perchè sui suoi turni di servizio concedeva palle break in serie. Prima una, poi due, poi ancora due: le annullava trovando la battuta (saranno 20 gli ace), ma alla fine Janowicz passava e saliva 4-1; sul 4-2 e 30-15 un nastro malandrino e decisamente britannico, forse, girava la partita. Tecnicamente, ed emotivamente; perchè Jerzy è fortissimo oggi e sarà un campione domani, ma non ha ancora il killer instinct e la serenità mentale per sopperire a certe situazioni, e lo si capiva anche da come chiedeva insistentemente all’arbitro di chiudere il tetto causa oscurità, ipotizzando come tutti che la cosa lo avrebbe favorito. Intanto, da 4-1 si faceva rimontare fino a 4-6; entrava negli spogliatoi per cambiarsi la maglietta e quando usciva scopriva che il tetto, effettivamente, si sarebbe chiuso, con grande rabbia di Murray che in totale ritmo e controllo non avrebbe voluto fermare la partita e lo faceva capire all’arbitro, dicendogli “da quanto tempo si lamenta per il buio? Ma se non è nemmeno buio!” (con il pubblico che impazziva e cominciava a scandire “play on, play on”). Ma la decisione era presa, e allora si ripartiva indoor dopo 29 minuti, 11 meno della procedura consentita: trucco british per favorire per quanto possibile il loro beniamino. Finiva che Murray non sentiva nulla: il break lo faceva subito, e non lo mollava più, prendendone un altro – decisivo – per chiudere 6-3, quando Janowicz, cui vanno gli applausi per un grande torneo, non c’era più con la testa e commetteva due doppi falli in successione concedendosi poi alla risposta di dritto dello scozzese. Seconda finale consecutiva: sarà quella buona? Dovrà risponderne Novak Djokovic, vincitore della maratona da 4 ore e 43 minuti contro un encomiabile Juan Martin Del Potro, che contro tutti i pronostici è riuscito a tirare fino al quinto set muovendosi benissimo su una superficie come l’erba che non lo favorisce, e mettendo in seria difficoltà il serbo al quale nel quarto set riusciva anche a cancellare due set point prima di andare lui a conquistare il tie break che allungava la partita. Qui però l’argentino non ne aveva più: meglio di così non poteva forse fare, anche al netto di un ginocchio malandato che più volte si toccava e massaggiava nel corso dell’incontro. Per quasi cinque ore sparava dritti con quel suo stile un po’ così che però è dannatamente efficace ed incisivo, e per quasi cinque ore Nole si allungava e accorciava, apriva le gambe quasi in spaccata, tirava il braccio ben oltre il limite consentito alla clavicola e rimandava di là tutto, trovando poi la forza per sparare vincenti paurosi che non trovavano opposizione possibile (alla fine saranno 80, con uno spaventoso nel conto degli ace). Muro di gomma e ribattitore come nessun altro, il serbo si prende così un’altra finale, la seconda dopo quella del 2011 vinta trionfalmente. Comunque andrà a finire, sarà uno scontro tra titani: anche sugli spalti, dove spadroneggeranno il pugnetto sempre sventolato al cielo di Kim Sears e gli occhiali da sole di Jelena Ristic a mascherare uno sguardo in apprensione. Anche loro, come tutto il centrale, faranno il tifo per i due protagonisti: Novak e Andy, nati a una sola settimana di distanza e padroni non solo di questa edizione di Wimbledon ma anche del futuro; la nuova rivalità del circuito ATP. Sono alla terza finale Slam negli ultimi quattro: vittoria dello scozzese a Flushing Meadows e di Nole a Melbourne. Adesso che abbiamo visto queste semifinali e che domenica ci attende una partita fantastica, siamo ancora convinti che, eliminati Nadal e Federer nei primi giorni, non ne valesse più la pena? Vinca il migliore, e buon divertimento. (Claudio Franceschini)



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