Let’s make history, diceva un cartello sulle tribune del campo centrale di Wimbledon. Facciamo la storia: storia fatta. Il 7 luglio (7/7), alla settima finale Slam, dopo 77 anni, un britannico vince i Championships. Tecnicamente lo speaker dovrebbe cercare di essere neutrale, ma come si fa dopo quasi un secolo? “Abbiamo aspettato per 77 anni”: si alza Andy Murray, e quei passi per arrivare fino al duca di Kent che gli consegna il trofeo devono essergli sembrati eterni. E’ lui l’uomo del destino: dopo Fred Perry, che qui all’All England Club ha una statua a simboleggiare tutto il tempo passato, Wimbledon è di nuovo inglese. Sul centrale piangono tutti: piange la madre, come una bambina, dopo che per tutta la partita ha stretto i pugni, esultato alla sua maniera e provato a fare forza al figlio nei momenti più difficili. Piange e ride insieme, come nella migliore versione degli addii stile fantasy, la folla assiepata in tribuna e quella che riempie la celeberrima Henman Hill (ve lo ricordate il buon Tim? L’ultimo britannico a far sperare un popolo, prima di Andy), dove chi non ha trovato il biglietto si guarda la partita (deve esserci tanta gente di Dunblane, perchè quando viene nominata durante le domande di rito si sente un clamoroso boato e sono tutti in festa). E piange, e questa è una notizia clamorosa, anche Ivan Lendl, visibilmente commosso quando l’ultimo colpo di Novak Djokovic si ferma sulla rete, consegnando il titolo a Murray. Glielo dice proprio Andy: “E’ anche per lui, che ha provato tante volte a vincere questo trofeo; oggi ce l’ho in mano io, ma lui è di fianco a me”. Sono scene destinate a rimanere nella storia: chissà quante volte Murray stesso e tutti gli inglesi si riguarderanno quelle immagini che la BBC ha già meravigliosamente montato, di Kim Sears con le mani sulla fronte e il volto fissato in un’immagine di felice incredulità (con tanto di immancabile “Oh my God”), di Andy che lascia cadere la racchetta a terra e si abbandona, volto a terra, alle lacrime, e dell’abbraccio bellissimo con Djokovic, che conosce da quando i due sono bambini e che oggi gli ha riconosciuto l’onore delle armi. Abbraccio replicato in tribuna: chissà quanti viaggi e quanti sacrifici avranno fatto i genitori per far arrivare i figli dove sono arrivati, e oggi si sono guardati negli occhi e salutati, reciprocamente. Certo: i signori Djokovic avrebbero preferito farlo con il figlio vincitore, ma sull’albo d’oro di Wimbledon compare invece il nome, finalmente, di un britannico. Festeggiato da tutti: dal primo ministro inglese David Cameron, da quello scozzese Alex Salmond che fino all’ultimo tiene in tasca la bandiera con la croce di Sant’Andrea, e pazienza se la Union Jack è quella che va per la maggiore. Pazienza, chi se ne importa in un giorno così? Per di più che la partita è bellissima: finisce in 3 set () ma dura 3 ore e 9 minuti, ed è di un’intensità pazzesca. Il primo set tra tutti è quello che vola via più rapido: a Murray era già capitato di vincere il parziale di apertura piuttosto in scioltezza, qui si ripete ma si capisce presto che nell’aria c’è una magia particolare. Quando? Semplice: quando Djokovic scappa via sul 4-1 nel secondo set e sembra rimettere tutto in discussione, ma Andy è una macchina, risponde colpo su colpo, sale 4-4 poi fa il break e di volata va a chiudere il set, con Djokovic stranamente nervoso. Il serbo più volte discute con il giudice di sedia (infastidito, probabilmente, da un overrule sbagliatissimo), si arrabbia, mostra segni di fatica sul volto. All’inizio del terzo set il numero uno al mondo perde immediatamente il servizio: qui il centrale si scalda e ribolle, ma Novak è Novak, replica subito ed è avanti 3-2 con tre game consecutivi, poi addirittura c’è il quarto con il break di vantaggio. Pazienza, si dicono tutti: andiamo al quarto. Ma c’è elettricità nell’aria. Perchè Murray improvvisamente riprende a giocare a tennis come sa, e cioè divinamente: 3-4, 4-4, addirittura 5-4 strappando il servizio a Nole. E’ il segnale: l’aplomb inglese, quello da tazza di tè alle cinque con mignolo alzato, non lo conosce più nessuno e il centrale diventa una polveriera. Anche perchè Murray in un amen sale 40-0 con triplo match point; ma “gioco contro Nole da una vita: quando gli altri smettono, lui comincia”, avrebbe poi detto Andy a fine partita. Detto fatto: lo scozzese forse inizia a pensare a tutti quei numeri 7 e a come solo dodici mesi fa Roger Federer lo aveva fatto piangere ma di rabbia, gli viene il braccino laddove il serbo con la forza della disperazione spara vincenti. Incredibilmente è 40-40, poi addirittura Nole ha tre palle per il controbreak e il 5-5 che riaprirebbe il discorso. Ma oggi è il giorno della Gran Bretagna, anche se un nastro malandrino (ma non era quello della Regina, dopo che aveva salvato Murray contro Janowicz?) rimanda dall’altra parte un appoggio di Djokovic; così, mentre Kim Sears suda visibilmente, Lendl sotto gli occhiali e l’impassibilità cecoslovacca ha un fuoco dentro e la madre non ce la fa più, Murray si procura il quarto match point. E poi, è finita. Murray vince Wimbledon 2013, secondo titolo dello Slam; Djokovic si arrende e concede l’onore delle armi: “Avete aspettato 77 anni, questo rende il trionfo di Andy ancora più bello”. Al fatto che in caso di vittoria sarebbe stato il suo settimo Major, probabilmente, ci ha pure pensato: vuoi mettere l’ironia della situazione? Ma no: forse, sarebbe stato troppo. (Claudio Franceschini)