E’ arrivato il momento di mettere fine alla mia carriera”. Con queste parole, pronunciate in lacrime a Cincinnati, Marion Bartoli ha detto basta. Aveva appena perso all’esordio del torneo WTA Premier V dalla rumena Simona Halep, una partita combattuta e finita solo al terzo set; si è presentata in conferenza stampa, come al solito, e ha annunciato il suo ritiro immediato. Ma come, si sono chiesti tutti, proprio adesso? Adesso che ha vinto Wimbledon, adesso che era tornata nelle Top 10, adesso che – finalmente – si stava divertendo. C’è una spiegazione: “Dall’inizio dell’anno ho subito tanti infortuni, mi sono sforzata di dare tutto per raggiungere un sogno che porterò sempre con me – ovvio riferimento al piatto londinese, ndr – ma adesso il mio corpo non regge più di un set. Non importa: il mondo si ricorderà della vittoria di Wimbledon, non di questa partita che ho perso oggi”. Ha ragione: chi mai ricorderà, tra qualche anno, che l’ultima partita di Marion Bartoli è stata giocata a Cincinnati? Negli occhi e nella mente ci sarà solo il ricordo della scalata alle tribune del campo centrale dell’All England Club, e del trofeo sollevato con un sorriso radioso che, diciamolo, Marion non ha mai avuto per tutta la sua carriera. Perchè la francese è stata una delle figure più controverse del circuito WTA: sgraziata sul campo con quel suo vezzo di colpire tutto a due mani e quella mania di gesti simili a tic nervosi e, va riconosciuto, spesso antipatici nei confronti delle avversarie. Addirittura impacciata senza la racchetta in mano: si narra che non parlasse mai con nessuno, che non avesse il minimo rapporto con le altre giocatrici, che fosse un oggetto estraneo. Colpa, è il caso di dirlo, del padre, un medico che da quando la figlia aveva sei anni l’ha iniziata al mondo del tennis (e questo è normale: c’è chi comincia prima), dedicando la sua intera vita a renderla una campionessa. Per questo ha utilizzato metodi decisamente poco ortodossi, le ha forgiato quello stile che non ha mai lasciato la ragazza e, cosa ancor più grave, l’ha privata di una vita al di fuori dei campi, perchè era tutto allenamento e partite, allenamento e partite. Finchè qualcosa si è spezzata: all’inizio dell’anno Marion Bartoli si è liberata dell’ingombrante figura paterna, e si è affidata a quella che in Francia è una leggenda, Amelie Mauresmo. La prima cosa che le ha detto l’ex campionessa è stata: “tra una partita e l’altra divertiti, sfogati, parla con la gente”. Ha funzionato: a Marion mancava quello. Il suo gioco ha trovato fluidità, sorretto finalmente dalla mancanza di pressioni genitoriali e dalla paura di sbagliare. Si è inerpicata fino alla finale di Wimbledon senza perdere un set, è tornata a giocarsi il trofeo sei anni dopo quella finale persa nettamente da Venus Williams, lì dove pensava – e tutti pensavano – non sarebbe più tornata. A differenza di Sabine Lisicki ha retto l’emozione del centrale strapieno e, dove l’altra piangeva di frustrazione nello sbagliare tutto, ha colpito ogni pallina con una sicurezza d’acciaio. Al termine dell’incontro si è riconciliata con il padre: “Significa molto per me che lui sia qui”. Perchè sì, è anche grazie a lui che Marion ha potuto vivere questo sogno. E ha ringraziato Amelie e Kristina Mladenovic, la grande promessa del tennis francese al femminile che quel sabato pomeriggio simboleggiava la riconciliazione della Bartoli con la squadra di Fed Cup. Da allora Marion ha giocato appena tre partite: l’ultima, il 6-3 4-6 1-6 contro la Halep, è anche quella della fine. Lascia a 29 anni, con 8 titoli in bacheca. C’è chi ha vinto di più, ma non tutti hanno in casa il piatto di Wimbledon. Lei ce l’ha, e nelle lacrime di ieri c’era anche la gratitudine per avercela finalmente fatta. In bocca al lupo Marion. (Claudio Franceschini)



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