Calcio senza cuore? Non è una novità. Le parole di Borja Valero riflettono quello che accade nel Real Madrid come in migliaia e migliaia di altri club, dal professionismo più sfrenato alle società in cui il dilettantismo dovrebbe in teoria essere accostato a un’idea ancora umana del pallone. Ma parlate con un qualsiasi genitore che abbia o abbia avuto un figlio in una squadra giovanile e vi racconterà come il bene del ragazzo non sia certo al primo posto nella classifica dei valori da difendere. E posso affermarlo per esperienza, diretta e recente. Un racconto accorato, quello del centrocampista della Fiorentina, in teoria condivisibile. Chi non si indignerebbe di fronte a giovani calciatori trattati senza alcuna attenzione una volta non ritenuti più utili al progetto societario? E allo stesso modo chi non reputa un errore pensare alla vittoria come all’unico obiettivo possibile? Domande che fanno sorgere due possibili risposte. La prima è rappresentata dall’evoluzione che lo sport stesso ha vissuto in tempi brevissimi negli ultimi decenni. Perché chi non vince squadra o singolo che sia è destinato all’oblio: non nel cuore della gente, in cui può albergare ancora un’idea romantica della competizione, ma nella considerazione dei suoi omologhi. Le società di calcio devono primeggiare perché questo significa maggiori introiti: la mancata partecipazione alla Champions League viene vissuta come un dramma economico. Allo stesso modo il singolo deve vincere per un investimento fatto su se stesso. E allora pensiamo all’atletica, pensiamo al ciclismo, pensiamo al tennis il fattore ricavi viene prima di tutto. Anche della salute, visto che gli impegni sempre più ravvicinati richiedono sforzi ad alto livello che soltanto un aiuto chimico può sostenere. Una situazione contingente cui gli atleti devono piegarsi, a maggior ragione se entrano nel meccanismo di un grande club, qual è il Real citato da Borja Valero. Per essere il numero uno devi avere con te i numeri uno, e chi spera di approdare in realtà di questo tipo sa bene quale sia il codice di comportamento richiesto.
La seconda risposta, invece, concerne una sfera più personale. Il centrocampista sottolinea come, secondo lui, quelli che sono stati respinti dal grande calcio “abbiano sacrificato l’adolescenza per niente”. Una considerazione molto tranchant e, al tempo stesso, che deve fare riflettere. Perché vorrebbe suggerire un fallimento non solo professionale ma anche umano. Quello di chi aveva riposto tutte le proprie speranze in un unico progetto e che si è sentito sconfitto una volta scottato dall’allontanamento. E qui diventa fondamentale il contesto che circonda il ragazzo quando scopre come il pallone possa diventare qualcosa in più di un semplice passatempo. E’ fondamentale avere intorno gente (famiglia, amici, i primi allenatori, i primi procuratori: sembra strano ma esistono anche personaggi positivi, non ci sono solo i temibili giudici del Real) che ti faccia capire come il calcio possa essere sì importante, ma come debba al tempo stesso venire inserito in un contesto più ampio, senza cadere nella monotematicità: quella che Borja Valero dice di non vivere oggi a Firenze ma che comunque ha rischiato di segnarlo (“Se non fossi diventato professionista la mia riflessione sarebbe più amara”, segno di un obiettivo già fissato nella testa). Solo così un eventuale rifiuto finale può essere riportato alla giusta dimensione, sia pure nella comprensibile rabbia del momento del no. Perché quegli anni sono comunque formativi, ti insegnano a vivere in un primo contesto collettivo, ti fanno assumere responsabilità, ti fanno capire che cosa sia il sacrificio in nome di una passione, ti obbligano a ragionare nelle situazioni difficili e ti fanno gioire in quelle positive. In breve: ti aiutano a formare una personalità. Ed è più che probabile che questo sia capitato a chi alla fine non ce l’ha fatta, senza parlare moralisticamente di adolescenza sacrificata per nulla.
Un ragionamento che vale per chi non sfonda ma vale anche per chi sfonda. Prendete proprio il Real Madrid e prendete Raul (digressione con tirata di orecchie per Borja Valero: non è vero che il solo Casillas sia passato dalla squadra riserve alla prima. Raul lo ha fatto, pensate anche a Emilio Butragueno, e se ne potrebbero elencare altri…). Raul, dunque. Lui è uno che ce l’ha fatta, che ha vinto di tutto, che si è sempre espresso ad altissimi livelli. E’ tra i giocatori citati in Le undici virtù del leader, un libro appena scritto da Jorge Valdano, uno che ha saputo giocare bene a calcio e viverlo con consapevolezza e disincanto al tempo stesso. Vedrete che parole rapite adopera per Raul, nato per fare il leader ma diventatolo all’interno di un contesto come il settore giovanile del Real Madrid. Un contesto che sarà pure complicato e maledettamente competitivo, magari senza cuore come si diceva all’inizio. Ma che ha ancora il vantaggio di premiare il merito. Anche perché altri club prenderebbero il suo posto, se non lo facesse…