“La vita è piena di gente falsa. Non credere in nessuno. Solo nella tua famiglia” è stato questo il tweet con il quale, più o meno inconsapevolmente, Mario Balotelli ha scatenato le fantasie più maliziose della stampa italiana. Successivamente il numero 45 più famoso al mondo ha dovuto spiegare che la frase non era assolutamente riferita a presunti dissapori con il suo allenatore Clarence Seedorf. Peccato però che nel frattempo i più illustri giornali italiani si siano sbizzarriti nell’interpretare il malumore del centravanti, gettando ombre sul suo rapporto con il Milan. Da qualche anno sembra esserci sempre meno spazio per l’improvvisazione e per la superficialità nella comunicazione sportiva. Per approfondire questo tema piuttosto articolato, IlSussidiario.net ha intervistato in esclusiva Barbara Ricci, una delle maggiori esperte italiane di marketing sportivo.



Da tempo ormai gli sportivi sono considerati imprenditori di sé stessi. Quanto è importante per un atleta selezionare le iniziative e i contenuti da indirizzare al pubblico? L’errore che un atleta può fare è quello di pensare che ci siano degli ambiti in cui si può comportare come una persona normale. Questi ormai sono circoscritti all’ambiente privato, basti pensare alla vicenda Balotelli: occorre che un calciatore abbia consapevolezza di questo. Saper comunicare vuol dire innanzitutto prevedere. L’immagine di un atleta si costruisce con il tempo.



Negli ultimi anni sta aumentando il seguito dei cosiddetti Bad boys… Bisogna sempre distinguere la notorietà dalla popolarità. Mi spiego: è vero che negli ultimi anni la categoria alla quale ti riferisci ha avuto un aumento in notorietà (basta vedere i numeri sui social media), ma le aziende cercano altro.

Cioè? Le aziende non cercano qualunque personaggio noto nello sport, ma piuttosto chi ha un’immagine in grado di trasmettere valori positivi. E’ vero che non tutti si chiamano Del Piero o Kakà, ma di sicuro restano loro i termini di paragone di un tipo di comunicazione vincente.



Molte volte si discute sulla possibilità da parte di un club di controllare in maniera diretta la comunicazione dei propri atleti. Che ne pensa? Sicuramente l’immagine di un atleta trae beneficio dall’appartenenza a un grande club. Si impara molto: ormai i personaggi sportivi più o meno famosi sono esposti 24 ore su 24 alle luci dei riflettori, quindi occorre che ogni tipo di comunicazione abbia un senso, onde evitare fraintendimenti, e in questo alcuni grandi club non possono che collaborare con l’atleta.

Esiste un legame tra il brand di un club o di un atleta sportivo e iniziative di charity? L’attività solidale può essere un alleato speciale per chi ha come obiettivo la valorizzazione del proprio brand?

Sì, secondo me decisamente. Attualmente noi di Sportwide stiamo lavorando molto per Onlus che intendono ricercare nel mondo del calcio un veicolo pubblicitario importante per le loro attività. Certamente le associazioni benefiche percepiscono la portata di notorietà che lo sport offre.

E il mondo dello sport? Percepisce l’intero valore di queste iniziative? Qui in Italia gli atleti, le società o le federazioni percepiscono in maniera sommaria il valore dell’essere protagonisti di attività di charity. Spesso viene visto come un pedaggio da pagare. Ci sono però molte eccezioni positive: basti pensare a Alessandro Del Piero, il quale è stato uno dei primi a percepire il valore delle attività delle charity impegnandosi in maniera attiva, o anche al Barcellona e alla Fiorentina, le quali hanno inserito all’interno delle proprie maglie i nominativi di alcune fondazioni. Si può sicuramente fare di più… (Francesco Davide Zaza)