Nel raccontare la semifinale di Champions League raggiunta ieri sera dall’Atletico Madrid a quarant’anni dall’ultima, non si può non ripercorrere a ritroso certi passi della storia recente dei Colchoneros. Estate 2007: Fernando Torres, gioiello del vivaio, 91 gol in 244 partite, viene venduto al Liverpool per 26,5 milioni di sterline. Il suo posto viene preso da Sergio Aguero, che già l’anno prima era arrivato a rimpolpare l’attacco dei Colchoneros, pagato 20 milioni di euro. Segna 101 gol in 234 partite, nel 2011 il Manchester City degli sceicchi bussa alla porta del Vicente Calderon e se lo porta via per 45 milioni, non prima della conquista dell’Europa League. Il presidente Enrique Cerezo ne spende 40 per assicurarsi le prestazioni di Radamel Falcao, che aveva vinto tutto con il Porto a suon di gol. Due anni e 72 reti in 87 partite: l’Atletico vince ancora l’Europa League e mette in bacheca copa del Rey e qualificazione in Champions League, ma il Tigre se ne va. C’è il Monaco di Rybolovlev: 60 milioni di euro e addio. La mossa dell’Atletico? Due milioni di euro per portare nella capitale un certo David Villa, ma soprattutto la promozione a costo zero di Diego Costa a titolare. Il brasiliano che sceglierà di giocare per la Spagna risponde con una stagione, non ancora conclusa, da 44 presenze e 33 gol. La squadra è in testa alla Liga a sei giornate dal termine, e ieri ha eliminato il Barcellona che per sei stagioni consecutive aveva centrato le semifinali di Champions League. Questo è l’Atletico Madrid: una società crollata dopo la doppietta nazionale campionato-coppa del , finita in Segunda Division per due stagioni, sull’orlo del fallimento per l’implicazione del presidente Jesus Gil in vicende poco chiare e dai contorni criminali. Una squadra che oggi è ammirata e invidiata da tutta Europa. Una squadra che dimostra come petrodollari e rubli di sceicchi e magnati russi possano non essere così necessari quando vuoi arrivare a vincere. Contano altri fattori: organizzazione, scelte oculate in sede di calciomercato, grinta e passione, leadership. Sembra di assistere alla parabola del Borussia Dortmund che, con le casse in profondo rosso e vicende di campo in inesorabile declino, ha risalito la china dando responsabilità ai giovani, chiamando un tecnico carismatico e tatticamente preparatissimo a guidarli e valorizzandoli per poi venderli a peso d’oro; il risultato si è visto nei due campionati consecutivi e la finale di Champions League della passata stagione. In casa Atletico Madrid c’è qualcosa di simile: diverso il modo di approcciarsi al mercato (le spese grosse ci sono, anche se solo quando sia arrivata un’entrata consistente: si compra solo se si vende insomma), identica l’organizzazione in campo. Al Calderon hanno fatto come la Juventus: hanno richiamato un giocatore simbolo dei trionfi passati come Diego Simeone e l’hanno messo in panchina. E il Cholo ha fatto un po’ come José Mourinho:
4-4-2 ermetico che non ti fa giocare e che riparte che è un piacere. Come lo Special One, Simeone si fa amare dai suoi giocatori che per lui farebbero tutto; come Jurgen Klopp, il Cholo sa sempre cosa fare contro tutti; come Antonio Conte, l’argentino vive le partite sudando e gridando dal primo all’ultimo minuto. La differenza? L’Atletico Madrid ha tutto questo insieme: la formula è vincente e adesso i Colchoneros fanno paura a tutti. Perchè giocano bene, hanno entusiasmo e poco da perdere, e hai sempre la sensazione che fargli un gol sia un’impresa titanica. Non sappiamo se vincerà la Champions League, e non è detto che lo stesso sistema funzioni altrove; la storia – e la generazione di fenomeni uscita dalla Masia blaugrana, per esempio – insegna che a volte servono anche i giocatori giusti per fare l’euro. Eppure, la lezione del Cholo Simeone e del suo Atletico Madrid è lampante: se hai soldi da spendere, meglio per te ma non è un’assicurazione; se non li hai, le idee fanno la differenza.
(Claudio Franceschini)