E’ sempre difficile raccontare di un ritiro dal mondo dello sport. Ancora di più quando il diretto interessato lo annuncia personalmente; anche se si affida a un video registrato e postato sul proprio sito ufficiale, così da poter “tagliare” le parti in cui, inevitabilmente, l’emozione prende il sopravvento. Stephanie Rice non è più una nuotatrice; se amate questo sport o semplicemente siete di quelli che si incollano allo schermo due settimane ogni quattro anni per le Olimpiadi estive, il suo nome e il suo volto vi saranno familiari. Nata a Brisbane (nel Queensland) il 17 giugno del 1988, l’australiana è stata a 20 anni il vero fenomeno dei Giochi di Pechino. Un periodo nel quale l’Australia dominava in vasca. Eamon Sullivan, Grant Hackett, Brenton Rickard tra gli uomini con medaglie individuali e di staffetta (ben tre, anche se nessun oro); Cate Campbell, Lisbeth Trickett, Leisel Jones, Jessicah Schipper tra le donne, capaci di prendersi – anche con l’aiuto di Emily Seebohm – due ori nelle staffette. E poi c’era lei, Stephanie Rice: la stella più scintillante nel firmamento acquatico cinese. Si era presentata a Pechino avendo appena rotto la relazione con Eamon Sullivan: tornò a casa con tre ori (200 e 400 misti, 4×200 stile libero). Era quella la controversa epoca dei costumoni: forse ricordate ancora l’immagine di Ian Thorpe avvolto in un tutone nero, il simbolo di un biennio nel quale grazie a questo ausilio in poliuretano e neoprene vennero abbattuti ben 126 record del mondo. La Federazione Internazionale li bandì nel 2010, dopo i Mondiali di Roma dell’anno precedente: anche la Rice si avvalse di questo supporto per infrangere i primati di tutte le gare alle quali partecipò in Cina, diventando la prima donna nella storia a nuotare i 400 misti sotto il numero dei 4 minuti e 30 secondi. La rivista Swimming World Magazine la nominò nuotatrice dell’anno, le immagini del suo sorriso a trentadue denti con oro al collo e tuta giallo-verde del suo Paese fecero il giro del mondo e quando Stephanie tornò in Australia era un’icona, tanto da essere avvicinata da riviste e atelier, certo aiutata anche da un’avvenenza che non passava inosservata. Ma dall’apice del successo, e con tutta una carriera davanti, le cose cambiarono molto rapidamente: ancora a Roma, ai Mondiali, riusciva a vincere due argenti e un bronzo, ma il tendine della spalla destra cominciava a non funzionare troppo bene. Un’operazione, poi una seconda, infine una terza appena prima delle Olimpiadi di Londra. Dove Stephanie era attesa alla consacrazione, ma riuscì solo a raggiungere due finali per poi non giocarsi realmente le medaglie. Nel frattempo c’era stato anche qualche problema di natura “etica”: un tweet omofobo a seguito di una vittoria degli Wallabees (la nazionale australiana di rugby) contro il Sudafrica le era costato un contratto con la Jaguar e l’aveva costretta a una conferenza stampa di pubbliche scuse. L’ultimo highlight di una carriera troppo breve arrivava a Shanghai nel 2011: due bronzi, uno individuale e uno nella staffetta. “Dopo Londra non volevo prendere una decisione affrettata sulla mia carriera” dice oggi Stephanie nel suo video di commiato, nel quale scorrono le immagini delle sue vittorie. “La delusione era troppa, mi sono presa del tempo per decidere al 100% cosa fare e ora posso dire che la cosa giusta è terminare la carriera”. Si dice entusiasta di quello che arriverà “fuori dall’acqua”; noi le auguriamo il meglio, ma ci scuserà se la ricorderemo in vasca, con la cuffia gialla in testa, a demolire le avversarie e guardarle dal gradino più alto del podio. Dopo tutto farà piacere anche a lei: la sua stella ha brillato troppo a breve, ma ha creato una luce intensa come poche altre. (Claudio Franceschini)



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