Il Real Madrid, finalmente, ha vinto la Decima. La Champions League 2013-2014 va nella capitale spagnola e, per la prima volta dal 2002, e spezzando un lungo sortilegio che sembrava non dovesse conoscere una fine, metà della città si è tuffata per tutta la notte nella fontana di Cibeles. L’altra, quella rojiblanca, dopo essersi spellata le mani per i suoi beniamini si è nascosta chissà dove a soffocare amarezza, delusione e lacrime. L’Atletico Madrid è stato a due minuti e mezzo dal coronare un sogno, il suo sogno. Dopo aver riportato la Liga al Vicente Calderon a 18 anni dall’ultima, ha sperato per tutta una sera di centrare il Doblete, di diventare la squadra più in voga di Madrid, la più vincente. Spezzando un dominio decennale e anche di più, coronando un anno miracoloso. Per 92 minuti e mezzo ha creduto di farcela. Meglio: ce l’aveva fatta. Ma lo sport è crudele, ed esattamente come era accaduto 40 anni fa il gol della beffa è arrivato nel rush finale, quando lo striscione del traguardo era lì e si poteva sostanzialmente toccare. Allora Schwarzenbeck, ieri Sergio Ramos. Una beffa atroce, dal 1974 al 2014. Quando il numero 4 del Real Madrid è sfuggito all’eroico Godin e impattato di testa superando Courtois sapevamo tutti come sarebbe andata a finire; nemmeno la più ferrea volontà, nemmeno il carattere temprato nell’acciaio più inossidabile, nemmeno il Cholo che pareva non scomporsi possono molto davanti a una mazzata così. Cosa vuoi dire ai Colchoneros? Sono arrivati all’ultima partita della stagione, quella che può valere la vita sportiva di un calciatore, e l’hanno quasi vinta. Poi sono crollati; e siccome c’è una squadra che ha vinto , sia pure nelle circostanze che conosciamo, dobbiamo spiegare perchè. Ed è chiaro, è sotto gli occhi di tutti, ma non è una fatalità; sarebbe sbagliato definirla così. La verità è che i Colchoneros sono stati battuti sul loro stesso campo, hanno perso giocando la loro partita, e proprio quel modo di giocare è stato la rovina di Diego Simeone. L’abbiamo visto per nove mesi: l’Atletico non crea valanghe di palle gol, non assedia l’area avversaria, non fa possesso. L’Atletico ti pressa altissimo, ti sporca le linee di passaggio, si compatta in tre linee che sembrano tenute insieme dalle stecche del calciobalilla, e non ti fa passare. Per ottanta minuti si è visto questo, salvo un erroraccio di Bale davanti al portiere. Si è vista una marea biancorossa che arrivava sempre prima sul pallone, una furia sfrenata che arrivava ai sedici metri a mettere pressione ai difensori centrali, un attacco costante ai ragionieri e giocolieri del Real Madrid. Ha funzionato, ma poi ci si è messo di mezzo l’imprevisto. Che era del resto calcolato: gli altri hanno pareggiato. Che l’abbiano fatto in pieno recupero conta poco: aumenta la tragedia sportiva ed è certo, ma forse non sarebbe cambiato poi granchè. Perchè l’Atletico ha scommesso per tutta una stagione su fisicità e corsa, su atletismo e interdizione. In questo, cioè nel giocare sempre ad un passo dal limite consentito, somiglia molto al Leeds United di Don Revie, quello che vinceva ma veniva accusato di utilizzare metodi poco convenzionali. Vero, il Cholo non ha mai superato quell’asticella tra legale e illegale (salvo ieri sera nel momento dell’espulsione e qualche minuto prima, ma è un’altra storia), ma rende l’idea delle partite dei Colchoneros. I quali hanno perso perchè nei supplementari non ne avevano più, e non ne avevano più perchè giocano sempre gli stessi e il modo di stare in campo non ti permette di affrontare un supplementare a cento all’ora. Pensateci:
Hanno vinto meritatamente la Liga, ma hanno rischiato di perderla facendo un punto nelle due partite della verità, e sono arrivati al Camp Nou non potendo perdere. Hanno pareggiato e festeggiato, ed è stato giusto così; ma un campionato dominato rischiava di trasformarsi in una beffa. Come ieri sera: in una partita c’è tutta la stagione dell’Atletico. Che resta una grande squadra, un miracolo sportivo e un esempio per tutti; e resta allenata da un tecnico giovane e bravissimo, che oggi vale i primi cinque al mondo. Ma ha imparato, nella notte del Da Luz, che se giochi quel tipo di calcio devi sapere che il gol avversario può arrivare, soprattutto se si chiama Real Madrid e nell’ultimo quarto d’ora sa che non ne hai più e avanza con un centrocampo che sembra la cavalleria di un esercito. Anche per questo non si è spiegata la presenza in campo di Diego Costa; che sia stato lui a decidere di giocare fa poco onore al Cholo, che sapendo di aver bisogno di tutte le forze fresche in campo avrebbe dovuto imporsi ed evitare di sprecare una sostituzione dopo quasi nove minuti, non avendola poi nella ripresa quando Adrian Lopez non camminava nemmeno più, quando Juanfran zoppicava, quando David Villa non teneva più un pallone. Forse sarebbe finita allo stesso modo, o forse no; la lezione qui è che l’Atletico ha perso perchè ha voluto giocare il suo calcio, ma che se non avesse giocato il suo calcio non sarebbe arrivato in finale e a due minuti dall’alzare la Champions League. Le contromosse? Certamente allungare la rosa, e dare più fiducia ai panchinari; la qualità del pressing cambia a seconda degli uomini. E poi avere sempre a disposizione il piano B, una lezione che lo stesso Atletico ha insegnato al Barcellona: forse è impensabile sperare che gli avversari non riescano a segnare, tanto quanto è impensabile andare in porta con il pallone in ogni minuto di ogni partita. E’ una lezione amara, che nulla cancella dello straordinario cammino dell’Atletico Madrid; ad alzare la coppa però sono gli altri, e forse questo significa qualcosa.
(Claudio Franceschini)