Per la seconda edizione consecutiva, la Nazionale italiana è fuori dai Mondiali al primo turno. Non succedeva da 48 anni: periodo buio del nostro calcio che coincise con i tentativi di costruire un gruppo competitivo che, dopo aver preso schiaffi da Cile e Corea del Nord e non essersi manco qualificata nel 1958, riuscì a raggiungere la finale in Messico. Dire adesso che siamo tornati a quei giorni è forse riduttivo e, magari, un po’ prematuro; ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Da campioni del mondo a eliminati ai gironi, due volte. Cos’è successo? Premettiamo: una spiegazione unica e razionale non c’è. Però, possiamo provare ad avvicinarci. Delle tre partite del girone si è detto e scritto; ne abbiamo perse due segnando due gol in tutto (nella prima), cos’altro possiamo aggiungere? Niente, e infatti non parliamo di moduli (perchè un con Balotelli isolato – e non è una prima punta – e due esterni che non esterni?) nè di sostituzioni (Parolo per SuperMario è stato il segnale che rinunciavamo ad attaccare, Cassano per Immobile non si è sinceramente capito) che pure hanno il loro peso specifico; e non parleremo di un’espulsione pure decisamente ingiusta perchè, come Boston 1994 insegna, anche in dieci (e pure sotto di un gol) si può vincere una partita. Ai tattici il duro lavoro di analizzare il perchè in una partita nella quale l’Uruguay non ha mai tirato in porta non siamo stati capaci di alzare il baricentro e segnare quel gol che ci avrebbe qualificati; qui si vuole sintetizzare, e non è impresa facile, un “malessere” aprioristico che, inevitabile, ha portato a quanto si è visto nei giorni brasiliani. E cioè confusione, idee poco chiare, continui vortici di giocatori e schemi. In una parola: programmazione. L’Italia, tra le formazioni considerate top, è l’unica a non avere un impianto di gioco ben definito. Prendete la Germania: due mesi prima dei Mondiali avreste detto che Joachim Loew avrebbe disposto i suoi con il 4-2-3-1 e, salvo inevitabili turnover, i giocatori sarebbero stati quelli. Il Brasile? Gli stessi undici della trionfale Confederations Cup. E così via. La Nazionale di Cesare Prandelli? Alzi la mano chi aveva capito con che modulo avrebbe giocato anche solo tre giorni prima dell’esordio contro l’Inghilterra, per non parlare degli interpreti in campo. Ora facciamo un passo indietro, agli Europei del 2012. Siamo arrivati in finale giocando bene ed elogiati da tutti: da lì, ci si aspettava che Cesare Prandelli avrebbe plasmato il suo gruppo Mondiale. Del resto, l’intento dichiarato era quello: si va in Polonia e Ucraina per sperimentare e porre le basi per il Brasile. Benissimo. Mettendo a confronto le rose dei 23 convocati dell’una e dell’altra manifestazione, i nomi in comune sono dieci. Facciamo undici, considerando la tegola Montolivo. Vogliamo esagerare? Alla Confederations Cup quelli che Prandelli ha poi portato alla Coppa del Mondo erano 15 (sempre contando Montolivo). Ora: al netto di possibili infortuni e cali di prestazioni, com’è possibile uno stravolgimento simile? Già: bella domanda. Sostanzialmente, il nostro Commissario Tecnico è venuto meno alle sue idee e ai suoi pensieri. Aveva affrontato l’Europeo con trequartista e due punte, poi ha iniziato i Mondiali con un attaccante e un centrocampo folto ma senza incursori che sfruttassero gli spazi. Si dirà: l’infortunio di Montolivo ha stravolto i piani. Vero, ma possibile che non ci fosse un suo sostituto naturale? Possibile che Candreva o Verratti, che in quella posizione ci hanno giocato (e non dieci anni fa) non potessero prestarsi? Germania e Francia hanno perso Reus e Ribéry, non due qualunque, ma questo non ha modificato il loro impianto. Insomma: 



Siamo convinti che compito di un CT della nazionale sia quello di formare un gruppo nel corso degli anni, testarlo durante le qualificazioni e le amichevoli e portare avanti un progetto. A volte, spesso, anche a discapito di una stagione nei club. A che pro escludere Cassano per due anni e poi portarlo ai Mondiali? A che pro insistere su Osvaldo, El Shaarawy e Destro e poi lasciarli fuori perchè hanno avuto un’annata difficile? O escludere Diamanti e Giaccherini perchè sono andati a giocare all’estero? Ecco il riassunto: non c’è stata programmazione, e allora tanto valeva portare Toni o Gilardino o Pepito Rossi, e magari anche Totti. E perchè no? Giocatori esperti e con tanta fame che, chissà, le sorti avrebbero potuto cambiarle. Prandelli insomma ha sbagliato innanzitutto in questo: nel non saper creare uno zoccolo duro sul quale imperniare modulo e gioco. Ha avuto quattro anni per farlo, ma siamo arrivati al Mondiale senza un’identità, e questa confusione si è riversata sul campo. Prima di chiudere, altre due considerazioni. La prima: se andate a guardare la rosa della Germania che ha vinto l’Europeo Under 21 nel 2009 ci trovate Neuer, Jerome Boateng, Howedes, Khedira, Ozil, Hummels, Schmelzer. Buona parte della nazionale di oggi, trapiantata da Joachim Loew già per i Mondiali dell’anno successivo. In Italia, l’ultima volta che l’abbiamo fatto, era il 1990 (con la squadra che fu seconda agli Europei di categoria). Sarebbe però lungo aprire un capitolo sul settore giovanile e sul perchè i nostri ventenni finiscono sempre da un’altra parte; ci limitiamo a citare la seconda considerazione. Forse è arrivato il momento di dire che l’Italia di oggi non è competitiva ai massimi livelli. I giocatori che in campionato spopolano e dominano, si vedano anche le magre figure europee della Juventus da 102 punti, a livello internazionale non reggono il confronto. Certo, vincere con giocatori che non sono fenomeni si può: lo insegnano Grecia e Danimarca, e qualche altra squadra. Per farlo però ci vuole tattica, organizzazione, programmazione. Di cui sopra. 



(Claudio Franceschini)

Leggi anche

Coppa del Mondo 2014/ Video, la classifica marcatori del Mondiale: James Rodriguez re dei bomber