Dal 28 al 30 agosto prossimi, a Bali, in Indonesia, si terrà la sesta edizione del Global Forum di UNAOC, United Nations Alliance of Civilizations. L’evento rappresenta un importante punto di incontro di leader politici, rappresentanti governativi, società civile, media, fondazioni e privati che operano nel settore dell’integrazione e del dialogo tra i popoli. Il tema di fondo sarà “Bhinneka Tunggal Ika, che possiamo tradurre come “Unità nella diversità”. Infatti si discuterà di come celebrare la diversità, fondandola su valori comuni e condivisi. “La comunicazione interculturale – ricorda Mariangela Giusti, docente dell’Università Milano Bicocca, in ‘Formarsi all’intercultura’ (Franco Angeli) – dovrebbe promuovere modi di pensare e atteggiamenti positivi, come la volontà di conoscere, il rispetto per le reciproche diversità, lo stare bene gli uni con gli altri (…) le culture non vengono sminuite nelle loro originalità (…) le differenze contano, ma non dobbiamo sottovalutare anche gli elementi di somiglianza, gli scambi, le contaminazioni…”. In un momento come questo, dove le cronache quotidiane sono occupate in gran parte dalla guerra tra israeliani e palestinesi, dal conflitto tra russi e ucraini e dalle situazioni critiche in tante altre parti del pianeta, credo che un appuntamento come quello di Bali non solo sia fondamentale, ma dovrebbe occupare poi le pagine dei media internazionali (e italiani) per testimoniare come non solo sia possibile, ma doveroso impegnarsi nella costruzione di un mondo diverso dove possa finalmente e concretamente prevalere il dialogo, il confronto e la voglia di ascoltare e comprendere l’altro, senza prevaricazioni.
Mariangela Giusti, nel testo citato in precedenza, parla di tre parole chiave per muoversi in questa direzione: accoglienza, educazione linguistica e educazione interculturale. In questo senso anche il luogo scelto per il Sesto Global Forum di UNAOC è significativo. L’Indonesia, infatti è il più grande arcipelago del mondo con oltre 17 mila isole che ospitano 490 differenti gruppi etnici. “L’Indonesia – ha dichiarato Marty M. Natalegawa, Ministro degli Esteri della Repubblica – è un luogo dove le grandi civiltà di tutto il mondo e una grande varietà di fedi, etnie, linguaggi e culture ha trovato una casa. Per sostenere l’unità nazionale all’interno della diversità, dobbiamo promuovere la reciproca tolleranza e il rispetto (…) invece di considerare la diversità un limite, ne abbiamo fatto un asset che lavora per noi. Una fonte di forza di cui essere orgogliosi. Una benedizione che noi celebriamo e che i padri della patria hanno riassunto nel motto: ‘Bhinneka Tunggal Ika’, unità nella diversità”.
Ho sempre pensato che l’altra patria ideale di queste discussioni fosse lo sport. Perché, come in Indonesia, è facile avere in squadra o confrontarsi con persone che vengono da tutto il mondo e che differiscono per colore della pelle, religione, lingua, cultura, idee. Lo sport dovrebbe essere uno dei luoghi naturalmente deputati all’intercultura. E, fortunatamente spesso lo è.

Pensiamo al valore simbolico, oltre che competitivo, di manifestazioni come le Olimpiadi, soltanto per citare l’evento più rappresentativo in assoluto. Ecco perché trovo assolutamente inaccettabile che Carlo Tavecchio, candidato e poi eletto ad una posizione così importante, specie in Italia, come la presidenza della Federazione Italiana Gioco Calcio, possa aver detto: “Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che ‘Opti Poba’ è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Come faremo a condannare gli atti di razzismo negli stadi se i candidati alle istituzioni utilizzando lo stesso gergo? Lo scorso campionato il giocatore del Barcellona Dani Alves è diventato un mito sul web per aver ridicolizzato un idiota che dagli spalti gli aveva lanciato una banana per denigrare il colore della sua pelle, raccogliendola e mangiandosela prima di tirare un cacio d’angolo. Di questo abbiamo bisogno. Di intelligenza, di ironia e di mettere alla berlina i comportamenti scorretti. 
Edgar Mitchell era uno dei tre membri della missione spaziale Apollo 13 che lasciò la terra il 31 gennaio 1971. Nel viaggio di ritorno dalla Luna, assolti tutti i suoi compiti, ebbe modo di godersi lo spettacolo: “E mi resi conto- raccontò un giorno – che siamo tutti fatti dello stesso materiale, siamo tutti Uno. Oggi, nella moderna fisica quantistica, la sia chiama interconnessione. Questi pensieri mi hanno fatto dire: accidenti, quelle sono le mie stelle, il mio corpo è connesso a quelle stelle”. Forse varrebbe la pena di mandare tutti quelli che esprimono pensieri come quelli di Carlo Tavecchio a fare un giro nello spazio per vivere la stessa estasi di Edgar Mitchell. Magari insieme a Opti Poba. O forse, basterebbe mandarli a Bali a fine agosto.