“C’è un giorno nell’infanzia di ognuno di noi che segna per sempre la nostra storia e il nostro destino. Alcuni lo ricordano, altri lo hanno dimenticato. Quel giorno, io l’ho scolpito nella memoria”. Comincia così Calcio totale, il racconto della sua vita, fatto da Arrigo Sacchi a Guido Conti. 

E’ un viaggio al seguito del “profeta di Fusignano” che ha saputo cambiare, in modo radicale, il mondo del calcio, la filosofia del gioco e il modo stesso con il quale noi italiani ci avviciniamo alle sfide. Da una cultura della difesa e del contropiede a quella del movimento senza palla, delle ripartenze, della difesa fatta avanzando e non indietreggiando. Ora, chi di voi non è interessato al calcio, può stare tranquillo. La riflessione che nasce dalla lettura del libro non vuole essere di stampo sportivo, ma esistenziale. Le 283 pagine di questa storia italiana, infatti, ci portano a ragionare, ancora una volta, sul nostro modo di affrontare la vita e le sfide. 

Un approccio che è fondamentalmente individualista e che si basa sulla cultura del singolo che può, anzi deve, risolvere i problemi. Un richiamo velato e indiretto a “quell’uomo della provvidenza” che tante volte abbiamo sentito menzionare nel corso della storia del nostro Paese. Ecco allora che leggere il racconto di vita di questo allenatore che, arrivato dalla provincia, ha saputo conquistare un posto di primo piano nella storia agonistica mondiale ci deve far riflettere. Certamente le circostanze hanno aiutato la realizzazione di un sogno. 

Una società, il Milan, che ha creduto fortemente in un progetto innovativo. Un presidente, Silvio Berlusconi, che avendo appena comprato la squadra voleva portare avanti un’idea diversa che conducesse il Milan sul tetto del mondo. Tuttavia, la parte interessante resta il modo con cui Arrigo Sacchi è arrivato al successo. Intanto è un professionista che arriva dalla gavetta e dalla cultura del lavoro: “Io sono nato con una doppia anima, una lombarda e una romagnola. Quella lombarda mi viene da mio padre, con il senso del lavorare duro, del sacrificio, dell’impegno e della perfezione per ottenere certi risultati”. 

E’ un passaggio che può apparire banale, ma non lo è affatto. In un Paese dove ancora oggi la filosofia della “conoscenza” intesa come scorciatoia per entrare nel mondo del lavoro, accedere ad un concorso o trovare posto in un ufficio statale è dura a morire, un forte richiamo al valore dell’impegno è, a mio avviso, tanto semplice quanto fondamentale. Inoltre, in un contesto dove si esalta spesso il singolo come esempio da seguire, avere la forza di proporre il valore della squadra e del gioco prima ancora delle individualità ha un valore etico straordinario. 

“Il calcio – scrive Sacchi – nato come sport offensivo e di squadra, ha perso le sue caratteristiche originarie in una nazione come l’Italia, che non ama la novità ma è legata alla tradizione, al passato, alla nostalgia. Una società che non fa squadra, ma ha un carattere storicamente individualista, dove il cittadino non ama lo stato, e vive ancora come se la propria città fosse il centro del mondo. Un Paese che non promuove la ricerca e non ama il futuro”. Sembra il fondo di un commentatore politico, probabilmente straniero, che guarda il nostro Paese da fuori. E invece è il sentimento di un comune italiano che sente che si potrebbero fare le cose in un modo diverso. Che si possono fare le cose in un modo diverso. 

Perché se si ripercorre la sua storia dagli esordi a Fusignano, alle giovanili della Fiorentina, dal Parma al Milan Campione d’Europa e del Mondo, fino alla nazionale di calcio arrivata seconda ai Mondiali (sconfitta dal Brasile solo ai calci di rigore) non si può non ammettere che è possibile affrontare le sfide in un altra maniera. E che, anzi, questo approccio è vincente. “Il calcio in Italia non è mai stato considerato – scrive Sacchi – uno sport con regole ferree (vedi gli scandali continui del calcio scommesse), e del merito ce ne freghiamo. Ai tifosi, alle società, ai giocatori, interessa solo vincere. Per me, fin dagli anni del Fusignano, non c’era vittoria senza merito”. 

E questa massima torna diverse volte nel libro. Come un mantra. “Non c’è vittoria senza merito”. In queste poche parole, in realtà c’è tutto quello che ci servirebbe per fare quel balzo in avanti che ognuno di noi spera. Ma che alla fine rimanda, oppure si aspetta dagli altri. Oppure, ancora, attende che venga introdotto magicamente. In fondo, significa tornare all’etica. Che poi diventa estetica. “Per esperienza i giocatori su cui contare – si legge nel libro – non erano i migliori dal punto di vista tecnico, ma quelli che eticamente e umanamente erano i più affidabili”. Questa è la lezione che mi pare interessante, perché viene da un vincente. Che però ricorda: “Arrivare secondi a un mondiale, in altro Paese, sarebbe stato un successo e un merito sportivo. In Italia diventò una specie di condanna. La mia cultura sportiva mi consente di apprezzare il secondo posto, specialmente quando è stato dato tutto”. E anche questo, a mio avviso, è un messaggio importante, soprattutto per i ragazzi. Non solo per quanto riguarda lo sport, ma la vita, il lavoro. Ricordarsi che il risultato deve nascere dall’impegno, dai valori e che bisogna essere in grado di giudicare il punto di arrivo con onestà intellettuale. “Non cercare di essere migliore degli altri, diceva William Faulkner, cerca di essere migliore di te stesso”.