Premessa: non ho mai visto giocare Johan Cruijff, se non in filmati d’epoca o videocassette/dvd dedicati. Per la verità non ho mai nemmeno visto allenare Johan Cruijff, la mia esperienza del fenomeno in questione è scarna o comunque non diretta, diciamo acquisita. Eppure la morte del campione olandese, sconfitto a 68 anni da un tumore ai polmoni, mi invita ad una pit-stop ai box della riflessione o quantomeno all’abbozzo di un pensiero, perché a morire è una delle più splendenti icone del mio (pardon, nostro) gioco preferito.



Anche per chi non c’era il nome di Johan Cruijff, già un pò complicato da scrivere, è indissolubilmente legato all’apposizione ‘calcio totale’. Un concetto che sa di libertà e goduria ma che forse solo chi l’ha visto nascere è in grado di ricostruire, o comunque ricondurre ad emozioni non artificiali. Chi si è perso l’Ajax di Cruijff e l’Arancia Meccanica olandese può aggrapparsi al Barcellona: quello allenato dallo stesso Cruijff, che ha spadroneggiato nei primi anni novanta del secolo scorso, e quello di Rijkaard prima e Guardiola poi; una squadra capace di riprodurre un calcio orchestrale di divina efficacia, esaltato da interpreti irripetibili come Iniesta, Ronaldinho e Messi.



In ogni caso è chiaro che non serve avere sessant’anni per accorgersi della clamorosa unicità e grandezza di Johan Cruijff. Pensiamo all’Olimpo del calcio di cui l’olandese fa parte: l’onnipotenza del mito Pelè è stata tradotta ai posteri dal primo Ronaldo, eroe a tal punto da indispettire il destino che poi si è accanito sui suoi muscoli troppo umani. Anche Maradona, per quanto personaggio inarrivabile, è stato riveduto e corretto in Lionel Messi, la sua versione 2.0. Michel Platini ha trovato un ‘pronipote’ in Zinedine Zidane, capace addirittura di spingersi oltre vincendo il Mondiale con la nazionale francese.



Invece non si è mai sentita, nè potuta o voluta azzardare, l’espressione ‘nuovo Cruijff’. L’unico erede finora ammesso dalla storia è stato quello naturale, il figlio Jordi (classe 1974) che si è ritirato nel 2010 dopo una carriera tutto sommato modesta. Forse solo il nuovo Ronaldo, quello Cristiano, rappresenta un tale livello di novità nel panorama calcistico (e citiamo anche Ibrahimovic, se no s’arrabbia). Dai filmati sopravvissuti e tramandati, anche chi non c’era può ricostruire un Cruijff alto ma elastico, snello ma inesorabile nel suo incedere in dribbling, ‘veneziano’ e insieme altruista, figo ma non narciso. Soprattutto bello da vedere, di un’eleganza quasi rumorosa: un vero e proprio fenomeno per cui il dilettevole sembra diventare la strada maestra per arrivare all’utile. Ho in mente in particolare una…

…breve sequenza in cui Cruijff porta a spasso un avversario dell’Inter (Oriali? Giubertoni?), durante la finale di Coppa dei Campioni del 1972: rivolto all’indietro effettua una finta che sembra spezzarlo in due, in realtà gli consente con un colpo di tacco (o interno piede?) di liberarsi dal controllo spedendo il marcatore quasi fuori dall’inquadratura; un dribbling che ha poi preso il suo nome, prima ancora un numero difficile anche solo da pensare eseguito con la naturalezza di un’occhiolino.

Si può (si deve) poi aggiungere che Cruijff non è stato semplicemente un divino artista del pallone o un leader rivoluzionario, ma anche e soprattutto un calciatore vincente. Basta scorrere il suo curriculum: 9 campionati olandesi, 6 coppe d’Olanda, 1 campionato spagnolo, 1 Coppa di Spagna poi 3 coppe dei Campioni, 1 Supercoppa Europea ed una Intercontinentale senza contare 3 Palloni d’Oro e gli innumerevoli trofei conquistati da allenatore. Lo storico giornalista Sandro Ciotti ha forse coniato il soprannome migliore, titolo del film-documentario dedicato alla carriera del numero 14: il Profeta del Gol.

Tutto in due parole: un talento innaturale, quasi divino o totale per l’appunto al servizio della perfezione sportiva. Insomma, forse anche chi non ha visto giocare (o allenare) Johan Cruijff può rendersi conto che uno come lui potrebbe non ripassare per il Pianeta Terra. Un’idea banale ma che mi sembra giusto rimarcare, soprattutto da oggi che lui non può farlo di persona, con la malcelata spocchia che lo contraddistingueva nelle interviste.

(Carlo Necchi)