Alla fine è successo: il Leicester ha vinto la Premier League. Claudio Ranieri ha completato il miracolo: un gruppo che lo scorso anno si era salvato per 6 punti ha centrato il titolo di campione d’Inghilterra. E’ accaduto davvero: per mesi ci siamo detti che non ce l’avrebbero fatta, che sarebbero crollati, che non era cosa loro. E invece eccoli lì, a festeggiare un’impresa che, vada come vada, è già negli annali del calcio e lì resterà, almeno al fianco del Kaiserslautern campione di Germania da neopromosso, o al miracolo Verona del 1985.
Vincono con Jamie Vardy tra i migliori bomber del campionato; vincono con Riyad Mahrez premiato miglior giocatore della Premier; ma vincono anche con una rosa di giocatori che, a guardare i nomi, avresti detto che a più di un’onorevole salvezza non avrebbe potuto ambire. Kasper Schmeichel, il figlio d’arte mai esploso; Marc Albrighton, cristallino talento dell’Aston Villa persosi per strada; Robert Huth, a nemmeno 20 anni al Chelsea (di Ranieri) e poi passato in provincia a sgomitare per rimanere nei piani alti d’Inghilterra; e via discorrendo.
Hanno vinto contro ogni logica: i giocatori più reclamizzati, Andrej Kramaric e Gokhan Inler, sono finiti uno in prestito in Germania e l’altro manco in panchina, raccogliendo appena 10 presenze stagionali di cui 5 tra Fa Cup e Coppa di Lega. Hanno vinto mettendo in fila rubli, petrodollari, cosiddetti top player; hanno vinto con un allenatore che in Italia era stato mandato via da tre grandi squadre. Dalla Juventus per una serie di pareggi che metteva a rischio la qualificazione in Champions League; dalla Roma dopo uno scudetto sfiorato e un inizio di stagione pessimo; dall’Inter perchè non era riuscito a risollevare le sorti di una squadra che usciva dal Triplete con ossa rotte e motivazioni sotto zero.
Sarebbe bello e istruttivo analizzare tatticamente il perchè di un trionfo inaspettato; sarebbe utile e interessante capire come Ranieri ha modellato e disegnato un undici che ha vinto, per esempio, 4-1 in casa del Manchester City, ha espugnato White Hart Lane e ha perso una delle ultime 18 partite. La realtà dei fatti è che una spiegazione razionale forse non c’è. La verità è che per tutto l’anno è sembrato di leggere Il grande romanzo americano, meraviglioso libro che il meraviglioso Philip Roth ha pubblicato nel 1973. La storia improbabile di una squadra di baseball, i Port Ruppert Mundys, che giocano un anno in trasferta perchè il loro stadio è stato occupato dai militari (siamo in periodo di Seconda Guerra Mondiale); una squadra fatta di giocatori mutilati (letteralmente), o con problemi di alcolismo, o che hanno superato da tempo l’età utile per giocare.
Perdono e perdono, ma poi improvvisamente iniziano a vincere. E tutti si chiedono come sia possibile, e nessuno sa rispondere. Perchè è vero, una ragione non c’è. Ed è questo il bello: che la favola del Leicester non sia riconducibile ad altro che all’entusiasmo di un gruppo, alla stagione della vita che tutti hanno giocato, a un miracolo sportivo che se fosse tatticamente analizzabile non si chiamerebbe così.
Vanno bene le corse di Kante, vanno bene i gol dell’operaio Vardy e le geometrie di Drinkwater, ma il Leicester campione d’Inghilterra è una favola splendida perchè sfugge razionalmente a tutte i tentativi di comprenderla e definirla. Non è forse questo lo spirito e l’emozione che anima tutti i film che affrontano il tema del riscatto dei perdenti, siano essi i ragazzini della Little League, i giornalisti in erba o una scalcagnata band di liceo? E allora, benvenuto nel miracolo, caro Leicester. Con la speranza che, a differenza dei Mundys e della Patriot League, la tua epoea non finisca nel dimenticatoio. Siamo certi che non sarà così.
(Claudio Franceschini)