ITALIA FUORI DAI MONDIALI. Caro direttore, ma porc… Mettercela, ce l’han messa tutta, questi azzurri, alla partita della vita o della morte. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte… Appunto. Eran trecento, erano undici se preferite, eran giovani e forti, e sono morti. Quando una nazione ha un inno e una poetica risorgimentale di quel tipo lì, ocio che prima o poi accade. E’ accaduto. Come nel ’58: kaputt. Sessant’anni dopo, vedremo il mondiale degli altri. Noi a casa, coi nostri galletti azzurri depressi come capponi.
Ieri sera, dai, il cuore, sì, l’hanno buttato generosamente nell’agone. Ahimè senza andare oltre l’ostacolo. La classe, ci hanno messa quella che hanno. Di più non si puote. Che poi non era mica chissà quale ostacolo: una masnada di lunghignoni al livello tecnico di una decente rappresentativa aziendale dell’Ikea. I nostri ci hanno subito intenerito con la disperata baldanza di una squadra dell’oratorio. Non sembrava impossibile, avendo di fronte quegli undici mobiloni legnosi dell’Ikea, simili ad armadi componibili nella mole e nelle movenze. Eddai, un paio di golletti… stavolta ce la facciamo. Perché a noi italiani della nazione non ce ne può fregare di meno, ma quando si tratta di nazionale, se appena appena fa mostra di giocare, allora sì che ci sentiamo italiani dentro, amanti della patria e riscattati in caso di vittoria dal giogo dello straniero, dai suoi soprusi e dalla sua supponenza.
Solo che per fare un tavolo ci vuole il legno, e c’era, dell’Ikea ma c’era. E per fare una vittoria ci vogliono i gol. Uno, almeno, nei novanta minuti regolamentari, uno, per poi rifilargliene un altro nei supplementari, o, guarda, anche solo per vincere da strepenati in extremis la giostra dei rigori. Niente. Reti inviolate, come avrebbero voluto essere le attrici di Hollywood. Peggio della squadretta primavera dell’Inter dei tempi del mago Herrera in campo per protesta contro la Juve onnipotente; si prese nove gol dicasi nove, com’era da aspettarsi, ma uno lo infilò nella rete bianconera, a firma di un adolescente di nome Sandrino Mazzola. Questi qui dell’oratorio Italia, di gol nisba. L’ultimo, e unico realizzato in questo sciagurato tour, è stato contro la Macedonia: con tutto il rispetto, capirai che mostro di compagine.
E allora come mai non è andata dentro la palla? Dai, ammettiamolo. Presi dal patriottismo da teleschermo, per un po’ abbiamo provato a dare la colpa alla sfortuna. Pensarci bene, nomen omen: fare l’attaccante chiamandosi Immobile e allenare chiamandosi Sventura, non dice bene neanche un po’ alla squadra. Abbiamo per un po’ provato anche ad adirarci con certe stravaganze di giudizio dell’arbitro, tra l’altro inopinatamente in fucsia, dalla testa ai piedi, calzettoni compresi, manco dovesse sfilare al corteo di un gay pride. Ci siamo provati anche a disprezzare i lunghignoni dell’Ikea, usi a ruvide scorrettezze gratuite come dei grizzly e piagnucolosi come signorine nello sceneggiare danni fisici da pronto soccorso per un nonnulla subìto.
Poi abbiamo iniziato a pregare per impetrare la grazia: per Bonucci, eroico resistente al dolore e gladiatorio nel gesto di gettare via la maschera protettiva del viso acciaccato; per Chiellini, chiamato con quei piedoni da palombaro al passaggio di fino in attacco. Abbiamo chiesto addirittura il miracolo per san Luigi Buffon portierone proiettato nell’area avversaria come Enrico Toti tra le file nemiche. Niente. Ohé, una trentina di cross in area, mica pochi. Quelli dell’Ikea uno, uno solo. Il fatto è che il cross è come l’amore platonico: non vanno a segno e non danno punti.
Peccato. Almeno per un’oretta e mezzo il patriottismo del football ci ha tirati fuori dal tunnel della depressione in cui eravamo piombati dopo la fila di sedute di ipnosi travestite da partite di calcio che l’11 di (S)Ventura ci aveva propinato. Ma il sogno, il sogno si è infranto. La grazia non è giunta e il miracolo non è accaduto. Infatti abbiamo pregato non per fede, ma per disperazione. E non potevamo essere esauditi.