ITALIA FUORI DAI MONDIALI. Caro direttore, sono un sociologo ma sono anche un tifoso di calcio: mi girano, come più meno ad altri sessanta milioni di italiani. Ma, dopo il dovuto cenno alla sfortuna, cerco di riflettere sull’accaduto da sociologo.

Comincio dal sorteggio che ci ha messo insieme alla Spagna il ranking, come no, ma si sa che i sorteggi non sono mai del tutto casuali e dagli arbitri non proprio amici delle due partite con la Svezia. Per anni abbiamo patito l’inimicizia di Blatter. Ma poi Blatter è caduto, ed è arrivato Infantino, di cui ci è stato raccontato che siamo amici e grandi elettori. Diamo per scontato che se giochi con il Brasile in Brasile o la Spagna in Spagna per chi ha buona memoria, anche la Corea in Corea è da evitare trovi un arbitro casalingo, e non ci sono amici che tengano. Ma davvero contiamo meno della Svezia? Non credo ai complotti, credo a una federazione che sul piano internazionale semplicemente non è più presa sul serio. Via Tavecchio, evidentemente. E fuori due, dando per scontato che vada via Ventura.

Ma non basta. E non perché ci sono troppi stranieri nel nostro campionato, ce ne sono di più in Spagna, Inghilterra e Francia, che ai mondiali ci vanno. O perché non curiamo i vivai: le nostre Under raramente vincono, ma raramente non arrivano almeno in semifinale. Il problema è un altro, e forse ci vuole un sociologo per vederlo. Non sono neppure i soldi, è il nostro pauperismo che ha insieme una radice cattolica e una marxista. La seconda retorica più facile del mondo la prima è quella sulla Chiesa che dovrebbe vendere le opere di Michelangelo e dare tutto ai poveri è prendersela con i calciatori o gli allenatori che guadagnano cento volte quello che guadagna un operaio. vero anche per i grandi manager, i grandi attori e i grandi avvocati. Però se l’attore è mediocre nessuno va a vedere il film, se l’avvocato è incapace il cliente innocente finisce in prigione, e se il manager è di serie B l’azienda chiude e si perdono tanti posti di lavoro.

Per il calcio vale lo stesso. uno sport ma è anche un’industria ed è la vetrina del Paese. Non bastano i soldi per vincere certe squadre di proprietà di sceicchi insegnano ma è certo che senza soldi non si vince. In Spagna vincono perché hanno Cristiano Ronaldo e Messi, che nessuna squadra italiana si può permettere. E i difetti cominciano dal manico, cioè dagli allenatori. Chi strapaga Mourinho, Ancelotti o Conte non è stupido: calcola i costi e i benefici, e scopre che l’allenatore top alla fine conviene.

Da noi, con il ritornello “è immorale che un allenatore guadagni cento volte più di un infermiere”, il governo, allora presieduto da Renzi, e il Coni, cioè Malagò, hanno invitato il calcio a dare prova di sobrietà. arrivato il brav’uomo Ventura, zero esperienza internazionale ma un ingaggio che è un decimo di quelli di un Conte o di un Ancelotti.

La sobrietà va benissimo nella Chiesa, e Papa Francesco ha tutte le ragioni, e anche nella vita privata delle famiglie, ma in una grande industria com’è il calcio fa rima con stupidità. Non andando ai mondiali abbiamo perso almeno cento milioni, ma se si calcolasse il danno d’immagine forse cinque o dieci volte tanto. Non era meglio spendere dieci milioni per due anni di un allenatore al top? Avrebbe fatto la differenza? Certo: non saremmo stati favoriti per il mondiale ma i nostri calciatori sono meglio di quelli della Svezia, o anche della simpatica Islanda e della Polonia, che al mondiale ci vanno.

Quanto ai calciatori, avrebbero più esperienza internazionale se arrivassero fino alla fine nelle coppe europee, il che succede solo a quelli della Juventus, e non sempre. Giocare insieme a tanti stranieri non è un problema: lo fanno gli spagnoli, e si vede anche in nazionale. Ma anche per le squadre di club vale il pauperismo per cui “è uno scandalo che i miliardari del pallone non paghino le tasse e la panetteria all’angolo sì”. In Spagna però le squadre di calcio non pagano le tasse. Per questo vincono tutto da anni e si possono permettere investimenti che da noi non esistono, per di più rimanendo spagnole e senza bisogno di vendere come facciamo noi a cinesi o americani, che hanno forse un po’ di soldi ma zero passione sportiva e scarsa competenza.

Si dice sempre che il calcio è lo specchio del Paese. Lo è stata la scelta di prendere un allenatore a basso costo, figlia di un’incultura che pensa di superare la crisi lasciando intatti i veri sprechi, e pensando di andare a risparmiare dove invece sarebbe meglio spendere.