A 13 anni dalla morte di Marco Pantani il tempo si è fermato al 14 febbraio del 2003. Strano paradosso: il cuore degli innamorati di ciclismo ha smesso di battere il giorno di San Valentino. Perché niente, da allora, è stato più lo stesso: l’eroe che nel 1998 era riuscito nell’impresa di vincere Giro d’Italia e Tour de France nella stessa stagione, il romagnolo che, mani basse sul manubrio, sfidava la montagna alzandosi sui pedali, per far finire in fretta l’agonia della scalata, trovato morto in un residence di Rimini. Se n’è andato, titolerà il giorno dopo La Gazzetta dello Sport, ma stavolta la fuga è stata per sempre, nessuna opportunità (purtroppo) di venire riassorbiti dal gruppo. Il racconto delle sue ultime ore non ci appassiona: non sappiamo se l’edema polmonare che gli è costato la vita se lo sia procurato da solo, in preda al delirio delle droghe; né sappiamo se ad avere ragione è sempre stata mamma Tonina, colei che ha sempre creduto che nella morte del figlio ci fosse qualcosa di poco chiaro. Ciò che non ci fa mettere l’anima in pace è come Pantani ci sia finito, in quel residence della riviera romagnola; quel che non ci dà tregua, da tifosi, è il fatto di non averlo saputo proteggere dal suo orgoglio ferito. Per strada “mi gridano dopato”, confidava Pantani: al quale non era mai andato giù di essere stato estromesso dal Giro d’Italia del 1999 per valori sopra la norma di ematocrito. Sapeva di essere a posto: ma le immagini del Pirata scortato dai carabinieri a Madonna di Campiglio (che in realtà volevano salvarlo dall’assalto della stampa), lo hanno marchiato a vita. Pantani non era un dopato: tecnicamente avrebbe dovuto osservare un mese di stop per non rischiare la propria salute. Poi avrebbe potuto risalire in sella, riprendersi tutto ciò che gli avevano sottratto: e magari, un giorno, sfidare “l’americano”, quel Lance Armstrong (lui sì, dopato), che lo pungeva nell’orgoglio, che aveva avuto la sfrontatezza di provocarlo, che aveva provato ad umiliarlo al Tour de France del 2000, quando un Pantani con 15 giorni di allenamento nelle gambe riuscì comunque a staccarlo in salita. E proprio i francesi dimenticarono, come quel ragazzo di Cesenatico (Pantanì, per dirla alla loro maniera) gli avesse salvato il giocattolino, quando nel pieno dello scandalo doping-Festina i corridori decisero di scendere dalle biciclette, di posarle sull’asfalto, e di sedersi accanto a loro. Solo Pantani riuscì a far sì che il Tour proseguisse: aveva un appuntamento con la storia, ma quando negli anni a venire la sua Mercatone Uno non fu invitata a partecipare alla Grande Boucle, ebbe un ulteriore conferma dell’ingratitudine umana. Per questo motivo Pantani è finito in quel residence: da solo, senza riuscire a dare seguito ai tentativi di disintossicarsi, all’ultimo scatto al Giro 2003, quando un boato informò che il Pirata era andato via dal gruppo, non si spiegava come fosse possibile che tutti lo avessero tradito. Tutti tranne noi, i suoi tifosi: quelli che ancora oggi scrivono “Pantani Vive” sulle strade del Giro, quelli che quando vedono una bandana pensano a Pantani, quelli per cui niente sarà più lo stesso, ma che bello averlo vissuto. (Dario D’Angelo)