Un signore, dentro e fuori dal campo, amante del calcio tradizionale, che sì non vinse un Mondiale, quello del ’90, giocato in casa, ma non si può certo dire che lo abbia perso, visto che quella Nazionale, bellissima ma troppo leggerina, aveva un gioco divertente. E soprattutto è stato un commissario tecnico che ha amato la maglia azzurra, nel solco di una tradizione di Ct fatti in casa che oggi purtroppo si è persa, ma che andrebbe assolutamente ripristinata per aiutare a risollevare le sorti del calcio italiano. Così Gigi Garanzini, giornalista sportivo, scrittore di libri di successo sul calcio e dal 1990 al 1993 direttore delle relazioni esterne del settore tecnico di Coverciano, ricorda la figura e la lezione di Azeglio Vicini, commissario tecnico della Nazionale dal 1986 al 1991, sulla panchina azzurra nelle “notti magiche” del Mondiale ’90, scomparso a Brescia all’età di 84 anni.

Che uomo era, prima che allenatore, Azeglio Vicini?

“Un gran signore. Incontrarlo era un piacere, sempre, anche fuori dall’ambito strettamente professionale, come ebbi più volte occasione in quegli anni a Coverciano.

Una figura che oggi nel calcio urlato faticherebbe a trovare posto…

Diciamo che dal punto di vista della buona educazione non mancano esempi validi anche nel calcio di oggi. Piuttosto il vero salto all’indietro lo abbiamo fatto a livello dirigenziale. Chi si occupa oggi di gestire il calcio è nettamente più dequalificato rispetto ad allora. E Vicini ci teneva molto a questo aspetto, aveva un profondo rispetto della forma.

Che tipo di calcio amava Vicini?

Il calcio tradizionale. Non credeva molto alle nuove formule. Anche perché un allenatore può essere bravo quanto vuole, innovare quanto vuole, ma alla fine molto dipende dal materiale umano che si ha a disposizione. Sacchi e Guardiola, che molti portano come esempi di innovatori, potevano contare su campioni che si chiamavano Maldini, Baresi, Van Basten oppure Messi, Piquè, Iniesta.

E’ giusto anche ricordare che Vicini assunse le redini della Nazionale in un periodo difficile, non dopo il trionfo del 1982, ma dopo l’86, Mondiale in Messico, dove gli azzurri, campioni in carica, furono eliminati agli ottavi dalla Francia di Platini.

Bisognava innovare, e già Bearzot aveva intrapreso questa strada, affiancando ai senatori alcuni giovani di qualità. Vicini continuò sulla stessa strada.

Ai Mondiali del 1990, giocati in casa, l’Italia non riuscì nell’impresa di vincere il Mondiale. Perché?

Giocare un Mondiale in casa non è una fortuna, ma una vera tragedia: devi saper gestire e sopportare una pressione mostruosa. Quella Nazionale aveva un gioco divertente, spumeggiante, ma aveva il difetto di essere un po’ troppo leggerina, diciamo, una squadra da fanteria leggera. Non era costruita su un blocco monosquadra, e soprattutto non aveva un leader riconosciuto, ma tanti piccoli leader, tanti piccoli dualismi, come quello tra Baggio e Mancini, per esempio.

E come gestiva questi dualismi Vicini?

Beh, meglio di Valcareggi, che scelse quell’orribile formula della staffetta. Vicini invece aveva fatto una scelta; certo, non irreversibile, perché era ovviamente molto attento allo stato di forma dei giocatori. Cercava sempre di trarre il meglio. Poi, essere stati eliminati, da imbattuti, per un’uscita a vuoto di un portiere fino a quel momento impeccabile e per due rigori falliti… Si può dire che quel Mondiale non lo abbiamo vinto, ma certo non lo abbiamo perso. Secondo me, è stata più amara la sconfitta ai rigori contro il Brasile nel Mondiale 1994: lì non ci abbiamo provato, ci è mancata la garra. Contro l’Argentina, invece, nel ’90 ci abbiamo provato, eccome.

Di Vicini ha sempre impressionato il suo amore per la maglia azzurra, una sorta di spirito di servizio a favore della causa. Non è quel che serve oggi alla Nazionale, specie dopo la delusione della mancata qualificazione, dopo 56 anni, a un Mondiale di calcio?

Assolutamente. E’ la miglior strada per ripartire e rilanciare il calcio italiano. Dopo il disastro della Corea, l’allora presidente Artemio Franchi decise di affidare la Nazionale a uno staff interno alla Federazione, con Valcareggi commissario tecnico, Bearzot responsabile dell’Under e Vicini come terzo. Da lì partì un ciclo di 20-25 anni che ha portato grandi frutti.

Insomma, una Nazionale che viene prima dei club…

Chi allena un club dipende maggiormente da logiche di mercato e manageriali. Ma un Ct ha competenze diverse: il suo primo lavoro è quello di essere un selezionatore, deve saper conoscere e sovrintendere anche tutto il settore giovanile. Per un allenatore la Nazionale deve essere il traguardo massimo, un motivo di orgoglio.

(Marco Biscella)